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Giù al Nord

Due chiacchiere sul libro Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali (a cura di Rocco Sciarrone) Donzelli Editore 2019 (2a ed.)

di francoplat - mercoledì 4 marzo 2020 - 3340 letture

Vivere in una città del Nord, negli anni Settanta, rappresentava un buon viatico contro le mafie. Bighellonavi tra le vie e i quartieri sapendo che non avresti visto lenzuola in terra a coprire, pudicamente, corpi martoriati da proiettili o da esplosioni, auto incendiate, palazzi sventrati, non avresti sentito urla o il silenzio sospeso dopo un omicidio eccellente o meno, finestre e porte rinserrate, per strada il famigliare del cadavere di turno, solo, tra occhi che non hanno visto o che non vogliono vedere. Voleva dire permetterti il lusso di pensare che la mafiosità fosse un problema di quelle lande lontane, dove qualcuno negava l’esistenza del fenomeno; dove, in fondo, ammesso il fenomeno esistesse, era uno scontro tribale e crudo tra clan. Si ammazzino tra loro, uno in meno, due in meno ecc. Voleva dire sentirsi al sicuro nelle proprie case, al massimo soggette all’avidità di ladri usa e getta.

Poi, ci si sveglia, quarant’anni dopo, e si avverte che qualcosa è cambiato. Qualcuno, sempre più persone, asserisce senza mezzi termini che le mafie sono presenti pure al Nord. Sacre diable, ma come? Come sono arrivate? Hanno conquistato in armi le città settentrionali, le cittadine settentrionali, i capoluoghi di regione e le province? Quando è iniziata l’invasione? Perché non ce ne siamo accorti! Ma anche adesso, va detto, non ce ne accorgiamo. Le strade restano linde, per terra campeggiano, indolenti, cartacce e cicles (i chewing gum a Torino) e deiezioni canine. Cattivo civismo, non mafiosità. Eppure, con buona pace di Roberto Maroni che nel 2010 tuonò contro le dichiarazioni di Saviano a ‘Vieni via con me’, incardinate sull’assunto della presenza mafiosa in Lombardia, c’è chi sostiene che le organizzazioni mafiose siano presenti al Nord. E lo sarebbero da anni, da decenni, anche quando gli adolescenti che fummo razzolavano lungo le vie senza cadaveri e screziate di cattivo civismo. Non avevamo occhi per vedere?

Di nuovo, sacre diable. Ci si sveglia al suono non clamoroso, ma distinguibile, delle inchieste giudiziarie, delle cronache di giornalisti coraggiosi, delle relazioni semestrali della Direzione investigativa antimafia, delle associazioni sorte nella società civile attorno alla questione mafie, degli osservatorii nati all’interno delle accademie, quello diretto dal prof. Nando Dalla Chiesa, ad esempio, il milanese Osservatorio sulla criminalità organizzata (Cross) o quello, geograficamente contiguo, coordinato dal prof. Sciarrone dell’Università di Torino, ossia il Larco (laboratorio di analisi e ricerca sulla criminalità organizzata). E quando ti svegli, ancora assonnato, ti pare di ascoltare, nell’ottundimento del risveglio, il Procuratore capo di Verona e direttore della Direzione distrettuale antimafia, Bruno Cherchi, asserire (siamo nel 2019) che è stata accertata, per la prima volta, “la presenza della criminalità organizzata strutturata nel territorio veneto, profondamente penetrata nel settore economico e bancario” (valigiablu.it, 20 marzo 2019). Camorra e ‘ndrangheta, che permeano di sé anche la politica, che sono infiltrate, peggio, radicate. Ma il Procuratore capo ha parole di cauto ottimismo, così che il risveglio risulta meno traumatico: Cherchi si dice, infatti, speranzoso nella “sostanziale forza del territorio, sia sul fronte amministrativo che imprenditoriale, che offre stimoli per controllare il fenomeno”, offrendo, così, soluzioni di contrasto.

Venticinque anni prima o poco più, la Commissione parlamentare antimafia, dopo aver espresso la preoccupazione circa la mancanza in Italia di isole felici, cioè esenti dalla presenza mafiosa, si esprimeva in modo altrettanto rassicurante sulla realtà centro-settentrionale: “la mancanza di un diffuso consenso (…), la resistenza opposta da un tessuto economico-sociale complessivamente sano, il rigetto di gran parte della società italiana dei metodi tradizionali dei poteri mafiosi, la stessa esistenza di un tessuto democratico capillarmente diffuso e meno facilmente permeabile rispetto alle infiltrazioni di soggetti dediti alla criminalità organizzata, funzionano sostanzialmente come anticorpi ed impediscono la riproduzione di condizioni ambientali tipiche delle zone di origine delle organizzazioni mafiose”. 1994-2019. Gli anticorpi, evidentemente, non hanno funzionato: forse, il tessuto economico-sociale ha cessato di essere sano, forse, il consenso era meno esiguo di quanto si pensasse, il tessuto democratico, forse, meno diffuso e più permeabile di quanto apparisse, le condizioni ambientali, forse, possono non essere esattamente le stesse per riprodurre la mala pianta.

Davvero, cosa è successo? Per provare a dare una risposta, può essere opportuno scorrere le pagine di Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, edito una prima volta nel 2014 e poi ripubblicato con integrazioni nel 2019. Il volume è curato dal sopra citato prof. Rocco Sciarrone, ordinario di Sociologia economica presso il Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino, dove insegna Sociologia della criminalità organizzata. Non è un volume divulgativo, è una ricerca accademica ampia e articolata, volta a spiegare il fenomeno espansivo delle organizzazioni mafiose al Nord, la loro graduale infiltrazione e, talvolta, il loro radicamento, ossia le loro modalità di insediamento con diversa forza penetrativa, con diverse strategie adottate dagli esponenti della criminalità organizzata (a tali strategie si attribuisce la categoria concettuale, in sede di analisi, di ‘fattori di agenzia’) dinanzi a un territorio dotato di specifiche caratteristiche (quelle che il volume definisce ‘fattori di contesto’).

All’interno di tali contesti, le mafie si muoverebbero seguendo logiche differenti e spesso intrecciate: la ‘logica degli affari’, cioè una forte vocazione imprenditoriale, tipica, ad esempio, della camorra, e la ‘logica dell’appartenenza’, ossia la volontà di radicarsi nel territorio, creando forti vincoli di lealtà e solidarietà; approccio più tipico della ‘ndrangheta. Diviso in nove capitoli, il testo risulta, di fatto, architettato su tre pilastri fondamentali: una prima parte, di natura teorica, nella quale si precisano la metodologia e l’ottica analitica adottate; una seconda parte volta a sviluppare, a livello generale, le premesse teoriche della parte precedente, attraverso l’analisi dei fattori di agenzia e dei fattori di contesto che caratterizzano le diverse zone geografiche del paese; una terza e ultima parte, quella più corposa, empirica, di ricerca sul campo, volta a evidenziare singoli casi di insediamento delle organizzazioni mafiose in alcune regioni esemplari, anzi, per meglio dire, in circoscritte realtà locali di alcune regioni (dalla Lombardia al Piemonte, dal Ponente Ligure al Veneto, dalla zona di Prato all’Emilia-Romagna alla vicenda ‘Mafia capitale’). Lo studio di ‘caso’ si presta bene a supportare, sul campo circoscritto di alcune località nostrane, gli assunti teorici della prima parte.

Non è in questa sede che si intende evidenziare la ricchezza analitica del testo, i molti dettagli di una ricerca che cerca di incrociare fra loro quelle due categorie sopra definite ‘fattori di agenzia’ (strategie dei criminali, loro risorse, reti di relazione, obiettivi di fondo ecc.) e ‘fattori di contesto’ (le specifiche condizioni dei territori che accolgono, per così dire, i gruppi criminali favorendone o arginandone l’infiltrazione e/o il radicamento). Di fatto, proprio la volontà di coniugare tali categorie rappresenta il cardine e la forza del libro, sia in quanto presupposto teorico sia in quanto esito analitico. Per dire meglio, la tesi di fondo del volume, che è poi una risposta alle domande poste sopra, è la seguente: le organizzazioni mafiose si sono insediate, a differenti livelli di penetrazione (infiltrandosi o radicandosi), non in virtù di una loro detonante capacità espansiva, o, meglio non solo in virtù delle caratteristiche loro proprie (il braccio violento dell’illegalità e la loro capacità di creare un ‘capitale sociale’, un network di relazioni finalizzate alle loro strategie), ma anche in virtù di un terreno predisposto ad accoglierle, ossia caratterizzato da comportamenti permeabili alla penetrazione delle illegalità mafiose in quel preciso contesto. Si tratta, cioè, di comportamenti preesistenti all’insediamento mafioso – prassi di illegalità o legalità debole, pratiche corruttive – che creano quell’area grigia di complicità e reti di relazione tra mafiosi e vasti comparti della società civile, del mondo economico e politico.

Dunque, l’opera si muove in un solco analitico e interpretativo che rigetta le tesi ‘mafiocentriche’, che spiegano tutto attraverso gli intenti e le strategie dei gruppi criminali; che rifiuta le teorie del contagio secondo le quali le mafie, simili a un batterio, infetterebbero un tessuto profondamente sano, necrotizzandolo; che si distacca dalle teorie dell’invasione in base alle quali, sulla base di una strategia più o meno pianificata, i gruppi mafiosi muoverebbero all’attacco di una realtà che ne diventa vittima. Il volume curato da Sciarrone non nasconde, in tal senso, un appunto critico alle tesi sostenute nei lavori, tra gli altri, di Nando Dalla Chiesa, più pronte ad accogliere, ad esempio, l’idea della ‘colonizzazione’ delle plaghe del Nord operata dai gruppi criminali. Quali siano le risultanti di tale idea è ben evidente in un editoriale pubblicato da ‘Il fatto quotidiano.it’ (Mafia, in Lombardia nessuno la nega più, 19 luglio 2018), legato proprio agli esiti del lavoro di ricerca del Cross. Sin dal sommario, il lettore viene condotto tra le pieghe del “silenzioso assalto delle cosche” e l’immagine della conquista mafiosa della Lombardia viene rinforzata dalla metafora della ‘metastasi’ e dal concetto di “inesorabile processo di colonizzazione” (corsivo nel testo). Uno dei passaggi dell’articolo ribadisce con un frasario bellico la prospettiva concettuale sottesa alla ricerca: riferendosi alla società civile lombarda, infatti, il lavoro del Cross sottolinea come quest’ultima fosse incline a considerare le mafie come un’anomalia non incisiva, “salvo trovarsene sconfitta silenziosamente, anzi espugnata, senza avere mai visto arrivare in lontananza l’esercito nemico”. Una guerra, dunque, combattuta senza bombe e strepiti, silenziosa, condotta da un nemico potente rispetto a una comunità ignara.

Questa fotografia, almeno a chi scrive, pare rigida, troppo rigida, incellofanata com’è in una divisione Nord-Sud per tanti aspetti arcaica, nella quale il secondo elemento del binomio si caratterizzerebbe per la propria alterità ‘malata’ rispetto alla sanità etica delle comunità settentrionali. No, non convince molto. Mafie del Nord soddisfa non soltanto la necessità di sbarazzarsi una volta per tutte dell’idea astratta della mafiosità quale requisito intrinseco della sicilianità (vale lo stesso discorso per camorra e ‘ndrangheta), ma anche il bisogno analitico di valutare un sistema complesso quale quello dei processi di espansione delle mafie in territori lontani da quelli di origine senza includere una sola variabile, ossia le mafie stesse, indipendentemente dai caratteri specifici delle realtà in cui esse si incistano.

Per precisare meglio la posizione assunta nel testo, il curatore fa riferimento a una famosa dichiarazione di Leonardo Sciascia, secondo il quale “la linea della palma” saliva inesorabilmente verso il Nord. Sciarrone osserva che tale metafora va intesa in senso più raffinato di come normalmente la si intende (ossia come estensione inarrestabile della mafia verso Settentrione): “non si riferisce infatti alla palma, ma appunto alla sua linea, cioè al ‘clima che è propizio alla vegetazione della palma’ ” (p. XIV). In parole povere, al contesto, ai comportamenti, alla mentalità e alla cultura dei territori in cui le mafie tentano di insediarsi.

Insomma, Sciarrone ritiene, di fatto, che non si sia trattato di un processo di ‘meridionalizzazione’ del Nord, così come sostengono alcuni studiosi. In termini di illegalità, senza affatto assumere un atteggiamento assolutorio nei confronti della criminalità organizzata o senza sottostimare l’efficacia delle sue strategie di penetrazione, il curatore di Mafie del Nord non vede distanze incolmabili o dicotomie radicali tra ‘buoni’ e ‘cattivi’. Non a caso, dopo aver sottolineato lo stupore di un ex consigliere regionale della Lombardia ed esponente di un partito della sinistra dinanzi all’immagine dei mafiosi emersa durante delle intercettazioni (“Non ce li aspettavamo così… così perfettamente inseriti”, p. 7), Sciarrone chiosa con un inciso che pare essere l’implicita impalcatura, per così dire, ideologica del volume: “Possiamo aggiungere, così simili a ‘noi’”.

Giù al Nord, abbiamo delle responsabilità, dunque, se si accoglie la proposta di questo volume. Forse, per fermare l’esercito nemico, non sarebbe bastato buttare qualche cicca in più nel cestino o raccogliere più deiezioni canine da terra. Ma sarebbe forse servito a creare la patina robusta delle sensibilità e delle responsabilità civiche, che è consapevolezza dei doveri collettivi e rifiuto delle scorciatoie facili per costruire un mondo a (cosa) nostra immagine. Così, solo per non assomigliare a ‘loro’. Cioè a noi stessi.

Mafie del nord

SCHEDA LIBRO

L’espansione delle mafie in aree diverse da quelle di genesi storica è ormai di lunga data. Il fenomeno è stato spesso spiegato equiparando la diffusione mafiosa a una patologia contagiosa che aggredisce un corpo sano, oppure rappresentando i gruppi mafiosi alla stregua di eserciti in armi che invadono e conquistano nuovi territori. Un’analisi approfondita mostra una situazione alquanto diversa, assegnando un ruolo cruciale alle condizioni economiche e politiche delle società locali. Il volume si colloca in questa prospettiva, presentando un’ampia indagine condotta in aree specifiche di alcune regioni del Centro-nord (Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana e Veneto). Il volume, uscito per la prima volta nel 2014 e divenuto da subito un punto di riferimento per chi, addetti ai lavori e non, voglia accostarsi ai temi della mafia e dell’antimafia fuori dalle tradizionali zone di insediamento, torna in una nuova edizione interamente rivista e aggiornata, che tiene conto dei recenti sviluppi delle vicende giudiziarie, a partire dall’inchiesta Mafia Capitale e da numerose altre che hanno riguardato il Centro e Nord Italia. Emergono modelli differenziati di insediamento, in cui prevalgono organizzazioni riconducibili alla ’ndrangheta e alla camorra, che riescono ad affermarsi utilizzando non solo competenze di illegalità ma anche risorse di capitale sociale. In alcuni contesti si osservano infiltrazioni nel tessuto economico, in altri risultano in crescita situazioni di vero e proprio radicamento territoriale. In tutti i casi sembra essere decisiva la presenza di soggetti «esterni» – imprenditori, politici, professionisti – disponibili a intrecciare rapporti di scambio con i mafiosi. È questa la vera novità delle mafie in aree «non tradizionali»: la presenza di un’area grigia in cui pratiche di illegalità, spesso preesistenti, favoriscono relazioni di complicità e collusione nella sfera legale dell’economia, della politica e delle istituzioni.

AUTORE

Rocco Sciarrone è professore ordinario di Sociologia economica all’Università di Torino, dove insegna Sociologia della criminalità organizzata ed è direttore di Larco (Laboratorio di Analisi e Ricerca sulla Criminalità Organizzata). Per i tipi della Donzelli ha curato Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno (2011) e Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli a oggi (2017).


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