Giacomo Leopardi
Forse il poeta più rivoluzionario della letteratura italiana. Di sicuro, il più emulato.
La Ginestra
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Ci si gira intorno. E ci si smarrisce. Tra versi e prosa e tutto quanto racchiude il contenitore culturale, a nome letteratura. A volte sorpresi, a volte estasiati, commossi, alienati. A volte, anche delusi. Tra un’irrefrenabile voglia di esternare un’anima che, nonostante aridità, rassegnazione e progressismo di "K" al posto di "che", di citazioni sfalsate, di autori più o meno conosciuti, sente il bisogno di manifestare e esternare la sua presenza a ipotetici interlocutori. Un’anima che spinge a emulazioni di stile nei quali provare a riconoscersi.
Alla fine, dopo un vagare da erranti lettori, naufraghi tra i significati custoditi nelle righe e messaggi, con i quali, manteniamo la libertà, o l’illusione, di poterli accostare alle nostre esistenze, ci si ritrova al cospetto di una poesia di Giacomo Leopardi.
Lo abbiamo riscoperto di recente, senza alcun oblio forzato, motivato da un modernismo discutibile, scorrendo una parte della sua vita che il regista Mario Martone ci ha donato dalle immagini del suo film, recentemente recensito su queste pagine.
Lui era rimasto lì, all’ombra di una Storia della Letteratura che abbiamo nostalgicamente rispolverato. E siamo rimasti catturati, come lo siamo stati negli anni scolastici, quando prendemmo a prestito le sue poesie che, anacronisticamente, ci obbligavano a chiamare Canti. Quando osservammo le immagini ricostruite di un volto al quale fu negata una riproduzione calzante di sofferenza. Che non fu solo anatomica, ma quello struggimento del vivere che ispirò e guidò la mano in quegli scarsi quaranta anni di non-vita, che conquistarono la nostra anima, ci ha preso per mano e ci ha fatto conoscere una Natura, che pensavamo già di nostro arbitrio. Un sogno interrotto, crudele e così reale. Tanto, da farci invidiare anche la sua solitudine.
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