Giacomo Leopardi

Forse il poeta più rivoluzionario della letteratura italiana. Di sicuro, il più emulato.

di Piero Buscemi - mercoledì 26 novembre 2014 - 2591 letture

La Ginestra

Sovente in queste rive,
 Che, desolate, a bruno
 Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
 Seggo la notte; e sulla mesta landa
 In purissimo azzurro
 Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
 Cui di lontan fa specchio
 Il mare, e tutto di scintille in giro
 Per lo vòto Seren brillar il mondo.

 E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
 Ch’a lor sembrano un punto,
 E sono immense, in guisa
 Che un punto a petto a lor son terra e mare
 Veracemente; a cui
 L’uomo non pur, ma questo
 Globo ove l’uomo è nulla,
 Sconosciuto è del tutto; e quando miro

 Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
 Nodi quasi di stelle,
 Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
 E non la terra sol, ma tutte in uno,
 Del numero infinite e della mole,
 Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
 O sono ignote, o così paion come
 Essi alla terra, un punto

 Di luce nebulosa; al pensier mio
 Che sembri allora, o prole
 Dell’uomo? E rimembrando
 Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
 Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
 Che te signora e fine
 Credi tu data al Tutto, e quante volte
 Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

 Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
 Per tua cagion, dell’universe cose
 Scender gli autori, e conversar sovente
 Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
 Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
 Fin la presente età, che in conoscenza
 Ed in civil costume
 Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
 Mortal prole infelice, o qual pensiero
 Verso te finalmente il cor m’assale?
 Non so se il riso o la pietà prevale.

Ci si gira intorno. E ci si smarrisce. Tra versi e prosa e tutto quanto racchiude il contenitore culturale, a nome letteratura. A volte sorpresi, a volte estasiati, commossi, alienati. A volte, anche delusi. Tra un’irrefrenabile voglia di esternare un’anima che, nonostante aridità, rassegnazione e progressismo di "K" al posto di "che", di citazioni sfalsate, di autori più o meno conosciuti, sente il bisogno di manifestare e esternare la sua presenza a ipotetici interlocutori. Un’anima che spinge a emulazioni di stile nei quali provare a riconoscersi.

Alla fine, dopo un vagare da erranti lettori, naufraghi tra i significati custoditi nelle righe e messaggi, con i quali, manteniamo la libertà, o l’illusione, di poterli accostare alle nostre esistenze, ci si ritrova al cospetto di una poesia di Giacomo Leopardi.

Lo abbiamo riscoperto di recente, senza alcun oblio forzato, motivato da un modernismo discutibile, scorrendo una parte della sua vita che il regista Mario Martone ci ha donato dalle immagini del suo film, recentemente recensito su queste pagine.

Lui era rimasto lì, all’ombra di una Storia della Letteratura che abbiamo nostalgicamente rispolverato. E siamo rimasti catturati, come lo siamo stati negli anni scolastici, quando prendemmo a prestito le sue poesie che, anacronisticamente, ci obbligavano a chiamare Canti. Quando osservammo le immagini ricostruite di un volto al quale fu negata una riproduzione calzante di sofferenza. Che non fu solo anatomica, ma quello struggimento del vivere che ispirò e guidò la mano in quegli scarsi quaranta anni di non-vita, che conquistarono la nostra anima, ci ha preso per mano e ci ha fatto conoscere una Natura, che pensavamo già di nostro arbitrio. Un sogno interrotto, crudele e così reale. Tanto, da farci invidiare anche la sua solitudine.


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