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EuropaCinema 2011, la lezione di Pupi Avati

Il cinema prima di tutto è scrittura. Attingere dalla propria interiorità e dalla propria esperienza di vita.

di Antonio Carollo - venerdì 14 ottobre 2011 - 4790 letture

Pupi Avati è stato ospite al Festival di Viareggio EuropaCinema 2011. Della sua lectio magistralis tenuta all’Eden agli studenti mi hanno colpito alcuni passaggi. Il film, ha detto, è prima di tutto scrittura. Se non si ha una storia da raccontare non si va da nessuna parte. Il soggetto e la sceneggiatura sono basilari. Prendere penna o macchina dattilografica (adesso sarebbe un’impresa trovarne una) o computer e scrivere, scrivere, fino a quando si attingendo dalla propria interiorità e alla propria esperienza di vita.riesce a costruire una storia che funzioni. Da una cattiva sceneggiatura non può nascere un buon film, da una buona sceneggiatura è difficile che venga fuori un brutto film. Il giovane che vuole svolgere un ruolo nel cinema, regista, attore o uno della miriade di mestieri che servono a fare un film, deve frequentare il set; la preparazione sui libri serve poco; bisogna stare dove si lavora il prodotto, recepire ogni sfumatura del lavoro del regista, degli attori, eccetera. I documentari e i corti sono pure una buona palestra, ma senza la smania di passare subito alla telecamera. All’idea deve seguire una approfondita elaborazione scritta.

Altro elemento decisivo è l’identità. Un aspirante regista deve avere spiccati il senso e la consapevolezza di sé come entità diversa dalle altre; questa diversità deve saperla esprimere attingendo dalla propria interiorità e alla propria esperienza di vita. Da questo nasce il radicamento di un’opera in un territorio, il ritorno ad un mondo di pensieri, di comportamenti, di costumi, di sentimenti, di vezzi, vissuti in prima persona, su cui si tesse la trama della storia da raccontare. In questo modo si ottiene un effetto di caratterizzazione e di distinzione immediatamente percepibile. I miei lavori, dice Pupi Avati, sono impregnati di fatti, personaggi, atmosfere tratti dalla mia infanzia e dalla mia giovinezza.

A proposito di questi riferimenti ha fatto una accattivante disamina dei vari periodi della nostra esistenza. La vita è un quadrante, ha detto, diviso in quattro sezioni: l’infanzia, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia. Nei primi due stadi si vive di presente e di futuro, nella maturità di nostalgia della giovinezza, nella vecchiaia si tende a scomparire nell’infanzia. In “Una sconfinata giovinezza” i numerosi flash back ritornano ad un’infanzia incantata, ai nonni, alla casa di campagna, ai cuginetti, proprio per questa intima esigenza del vecchio di annullarsi in una felicità totale, per cancellare la miseria dell’ultimo scorcio della sua vita.

Divertente è stata la metafora dei bianchi e dei neri. In base alla mia ormai lunga esperienza di casting, ha detto, io distinguo gli aspiranti ad un ruolo in un film in due categorie, bianchi e neri. Appartiene ai bianchi chi si presenta all’appuntamento con la convinzione che si tratta di una formalità inutile, tanto passano solo i raccomandati. Ti butta, quasi, il suo book sul tavolo, impaziente e disincantato. Quando gli dici che i ruoli adatti a lui sono tutti presi, ti guarda con un sorriso sprezzante e una certa aria di trionfo, si riprende il book con malagrazia ed esce deciso, con aria di superiorità: ha visto confermate nei fatti le sue elucubrazioni sulle schifezze imperanti nel mondo. Il nero è l’esatto contrario. Ripone la propria vita su quella prova; è quasi terrorizzato al solo pensiero di essere respinto. Si presenta intimidito, umile, depone garbatamente sul tavolo il suo book, segue ansiosamente le mosse del regista o dell’addetto al casting. L’esaminatore si sente in trappola, come fa a distruggere il sogno dal quale dipende la vita di una persona? I ruoli sono esauriti, ma ai quattro arcieri che dicono una sola battuta nel film, per esempio, “I cavalieri che fecero l’impresa” se ne può aggiungere un quinto. Okai, arciere; avanti un altro. Esplode la gioia del giovane aspirante attore.

Un’ultima cosa che, credo, avrà un po’ disorientato gli studenti e i giovani aspiranti cineasti presenti alla lectio: ha detto che attore si nasce, non si diventa. La naturalezza sul set o sul palcoscenico ce l’hai o non ce l’hai. Come esempio ha citato un noto giovane attore. E’ stato bravissimo nel suo film “Jazz Band” quando era vergine di scuola. Dopo il diploma è caduto nella mediocrità o sufficienza risicata. Una notazione. Questo report non dà che una pallida idea della verve affabulatoria e creativa di Pupi Avati. I suoi racconti sono piccole rappresentazioni fatte con la voce, i gesti, la mimica, i movimenti. Mi viene da dire; il talento ce l’hai o non ce l’hai.


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