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Esiste ancora la questione meridionale?

Recenti dati Istat ci dicono che l’apporto del Sud alla formazione del PIL italiano è stato nel 2007 del 23,8% mentre nel 1979 era del 24,0%. Secondo l’ultimo rapporto Svimez, nel 2006, solo lo 0,66% degli investimenti diretti esteri sono stati allocati nel Sud mentre il 99,34% si é orientato verso il centro nord.

di Agostino Spataro - domenica 1 marzo 2009 - 5754 letture

Esiste ancora la questione meridionale?

Non è una boutade, ma una domanda pertinente che sollecita una verifica della realtà attuale di questa grande area poco sviluppata che comprende 8 regioni, suddivise in 28 province, che rappresentano il 75% delle acque territoriali, il 41% della superficie e il 35% della popolazione italiane.

Un territorio carico di storia e di cultura, ma segnato da acute contraddizioni sociali ed economiche che parevano insanabili per via ordinaria.

Tanto che, agli inizi degli anni ’50, la politica italiana decise di affidare il Sud alle cure di un ministero ad hoc istituito e agli interventi operativi speciali della Cassa per il Mezzogiorno (Casmez). Da allora ad oggi qualcosa è cambiato in meglio, tuttavia la questione meridionale resta come palla al piede dell’Italia. Se non altro perchè è rimasto immutato il divario col Nord.

Recenti dati Istat ci dicono che l’apporto del Sud alla formazione del PIL italiano è stato nel 2007 del 23,8% mentre nel 1979 era del 24,0%. Addirittura una leggera flessione che segnala il permanere di una difficoltà di fondo che acuisce il disagio sociale e scoraggia gli investimenti italiani e soprattutto stranieri. Secondo l’ultimo rapporto Svimez, nel 2006, solo lo 0,66% degli investimenti diretti esteri sono stati allocati nel Sud mentre il 99,34% si é orientato verso il centro nord.

All’interno del dato globale di segno negativo, si registrano significativi progressi a macchia di leopardo, concentrati specialmente nelle 4 regioni più piccole che stanno “fuoriuscendo” dal Mezzogiorno. La svolta riguarda Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna che, nel 2007, hanno fatto registrare un Pil pro-capite superiore alla media meridionale attestatasi su 17.552 euro.

I fattori di tale performance sono molteplici: innovazione, prossimità con i mercati, efficienza dell’infrastrutture e dei servizi, ecc. Tuttavia, il fattore più influente, e unificante, sembra essere l’assenza del predominio mafioso sui loro territori.

L’esatto contrario di quanto si verifica nelle rimanenti regioni Calabria, Sicilia, Campania e Puglia, tutte al di sotto della media del Pil, segnate da una soffocante presenza della criminalità organizzata (rispettivamente: Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra e Sacra Corona Unita) che condiziona l’economia, l’amministrazione e, in una certa misura, la società civile.

Un Mezzogiorno dentro il Mezzogiorno

Una vistosa divaricazione interna che ha creato un mezzogiorno dentro il mezzogiorno.

In Calabria, Sicilia e Campania non c’è un vero mercato, non c’è libera concorrenza, ma prevalgono forme di produzione e di accumulazione pre- moderne, basate sulla violenza e sull’illegalità, che consentono alle mafie di produrre un “fatturato” stimato (forse per difetto) in 130 miliardi di euro, corrispondente al 40% del Pil meridionale e al 10% di quello italiano.

Un’incidenza davvero ragguardevole, ben oltre i limiti fisiologici tollerabili, maggiore di quella derivata dal fatturato di alcuni grandi gruppi industriali italiani.

Un fiume di denaro che, oltre a sfuggire in gran parte al fisco, fa della criminalità uno dei soggetti principali dello scenario economico e finanziario del Paese, con articolazioni importanti in diversi Stati europei, dell’est e dell’ovest.

A ben pensarci, senza questo 10% d’origine malavitoso forse l’Italia non potrebbe sedere nel club del G8. Molti, soprattutto all’estero, si chiedono: perchè lo Stato democratico, i diversi governi succedutisi non hanno mai intrapreso una lotta seria, definitiva contro le organizzazioni criminali?

Il pensiero corre ai voti che le mafie convogliano sui partiti di governo. Ma il voto, da solo, non basta a spiegare un fenomeno così potente e radicato.

In realtà, la motivazione principale credo stia in questi enormi flussi di capitali che, per vari canali, anche leciti, affluiscono nel sistema economico e nel circuito finanziario nazionale ed internazionale. Insomma, senza questo apporto, ormai consolidato, verrebbe a mancare un pilastro finanziario importante, difficilmente sostituibile con risorse lecite.

Immigrazione e federalismo egoistico

Ma torniamo al Meridione dove al permanere di dinamiche così perverse si registra l’attivazione di alcune più virtuose che hanno favorito l’emancipazione economica di talune regioni.

Tutto ciò è successo nel corso degli ultimi tre lustri (1992-2007), ovvero durante la lunga e confusa (e non conclusa) fase della transizione politica italiana, apertasi con l’esplosione di “tangentopoli” (1992) che ha travolto il sistema politico della ”prima Repubblica” e capovolto i termini del tradizionale rapporto nord-sud.

Nel senso che, anche grazie alle pressioni ricattatorie della Lega di Bossi, nell’agenda politica e di governo non figura più la “questione meridionale”, ma quella “settentrionale”, accompagnata dalla rivendicazione di un “federalismo fiscale” caricato di un significato punitivo verso il sud “sprecone”.

Il progetto di riforma federalista, già varato dal governo Berlusconi, se attuato rischia di perpetuare, di acutizzare il divario fra nord e sud e quindi d’innescare una contrapposizione fra regioni ricche del centro nord e regioni meno sviluppate del sud che potrebbe disarticolare l’autorità dello Stato e l’unità della nazione. Si creerebbe, così, il clima perfetto per consentire alla Lega di far passare la sua idea costitutiva di secessione del nord, mai veramente abbandonata.

Un progetto subdolo, disastroso per l’Italia e per l’Europa, che non si nutre soltanto dell’egoismo razzista di taluni gruppi improvvisamente arricchitisi, ma che fa leva su alcuni fenomeni sociali nuovi che stanno modificando il tradizionale rapporto fra nord e sud del Paese. Fra questi, grande importanza assume l’immigrazione extracomunitaria. L’afflusso, piuttosto recente, nelle regioni del centro-nord di milioni d’immigrati ha fatto venir meno uno dei presupposti del “patto scellerato” sul quale si è fondato, dall’Unità in poi (1860), il difficile equilibrio fra nord e sud. Com’è noto, quel “patto”, mai ufficialmente ammesso, assegnava al Sud una doppia funzione subalterna verso l’industria del nord: di fornitore di braccia e cervelli e di grande mercato di consumo.

Oggi, il nord, giunto ad uno stadio di saturazione del suo sviluppo e in forte competizione con altre realtà industriali europee e mondiali, alle braccia meridionali preferisce quelle provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina. Meglio se clandestine poiché costano meno e non hanno diritti da rivendicare.

Tuttavia, il Nord non può fare a meno del Mezzogiorno che resta pur sempre un importante mercato (circa 20 milioni di consumatori) e luogo strategico di deposito, trasformazione e distribuzione di prodotti energetici. Soltanto in Sicilia si raffina il 40 % delle benzine, mentre sulle sue coste approdano due giganteschi metanodotti provenienti dall’Algeria e dalla Libia.

Nei nuovi programmi, in corso di attuazione, è prevista, sempre in Sicilia, la realizzazione di due grandi impianti di ri- gassificazione e almeno di una centrale nucleare. Insomma, il sud sempre di più acquisterà un peso decisivo nella strategia di approvvigionamento energetico del Paese.

Il Mezzogiorno ponte europeo nel Mediterraneo

Anche se la Casmez è stata abolita, l’intervento speciale nel Sud, seppure in misura ridotta, è continuato sotto altre forme. In particolare, utilizzando i vari progetti comunitari, purtroppo concepiti ed attuati in continuità col vecchio meccanismo e, pertanto, con risultati vicini allo zero.

Peccato! Poiché si è persa un’altra importante occasione per il Sud. Infatti, oltre ad avere sprecato una gran quantità di denaro pubblico, si rischia di non cogliere le tante opportunità che si produrranno, nei prossimi anni, grazie allo sviluppo globale e multi polare nella zona mediterranea.

Il Mezzogiorno, fisicamente e storicamente proiettato nell’area mediterranea, potrebbe candidarsi a divenire zona-cerniera, ponte del partenariato e della zona di libero scambio euromediterranei. Cambierebbe così il suo ruolo: da area emarginata a punta più avanzata dell’Italia e dell’Europa del dialogo e della cooperazione con i Paesi rivieraschi.

Inoltre, sappiamo che nel Mediterraneo, speriamo al più presto pacificato e politicamente co-gestito, si materializzerà, attraverso il canale di Suez, una fra le più sconvolgenti novità sul terreno dei rapporti economici, culturali e politici fra Europa e Asia. Per il sud italiano, così come per altri sud europei, si apre, infatti, una prospettiva inedita, rappresentata dai crescenti flussi commerciali e finanziari provenienti dall’Asia e dall’Africa, in particolare, oggi, da Medio Oriente, Cina, India, Giappone, Oceania. Una prospettiva che potrebbe consentire al Mediterraneo un “ritorno” al ruolo storicamente assolto fino al 1492.

Spostare a sud l’asse dello sviluppo italiano ed europeo

Ma il sud è attrezzato per intercettare, accogliere almeno una parte di tali flussi? Credo, proprio di no o solo in parte. Anche perché non supportato da una politica estera orientata a tale scopo. La politica italiana verso il Mediterraneo continua ad essere eclettica, senza un centro, in qualche caso pittoresca, e soprattutto condizionata dagli egoismi razzistici della Lega nord. Anche questo è un segno evidente del declino. Una grande nazione non può, davvero, presentarsi al mondo così conciata.

L’Italia, cogliendo il nuovo clima derivato dall’elezione di Obama, deve operare una svolta nella sua politica estera, per mettere il Mezzogiorno al centro del nuovo scenario geo- economico mediterraneo che si configura come uno dei principali poli dello sviluppo mondiale di questo nuovo secolo.

D’altra parte, se si vuole uscire dalla “crisi” rinnovati bisognerà puntare sul riequilibrio produttivo del Paese, prendendo atto che lo sviluppo del nord è prossimo alla saturazione e che, quindi, soltanto il Mezzogiorno potrà garantire all’Italia una continuità di crescita razionale ed eco-compatibile.

Appare necessario, pertanto, lo spostamento a sud, verso il Mediterraneo, dell’asse dello sviluppo per delineare una prospettiva economica virtuosa, di fuoriuscita dal parassitismo e dall’illegalità. Molto sta alla politica, ai governi, ma anche ai cittadini del Sud, perché il mezzogiorno sarà- parafrasando un pensiero di Fernand Braudel- come lo vorranno meridionali.

Una nuova politica, un nuovo pensiero

A fronte di tali, possibili sconvolgimenti va anche aggiornata l’analisi teorica e politica della realtà meridionale, per individuare nuove chiavi di lettura e nuovi strumenti d’intervento.

Riflessione necessaria anche per evitare che si accrediti nell’opinione pubblica internazionale un’idea riduttiva del Sud così com’è rappresentato da taluni libri o film di successo, compreso l’ottimo “Gomorra” di Roberto Saviano.

Bisognerebbe, pertanto, aggiornare e, se del caso, superare talune teorie politiche e sociologiche meridionaliste che non reggono più al confronto con la realtà e con le tendenze attuali. Anche la sinistra, le forze progressiste devono compiere uno sforzo coraggioso.

Un solo esempio. Davanti a mutamenti così radicali, imprevedibili, penso sia limitativo attardarsi sulla diagnosi di Antonio Gramsci, com’è noto basata sul citato “patto scellerato” fra industriali del nord e agrari del sud, al quale contrapporre l’alleanza fra operai del nord e contadini poveri del sud.

Analisi lucidissima, ma datata. Valida per interpretare il vecchio contesto storico e politico.

Oggi, la gran parte di questi attori sociali risultano ridimensionati nel loro ruolo politico ed economico, o fortemente emarginati nell’odierno contesto. Nuovi soggetti sono entrati in campo e soprattutto si è ampliata la prospettiva del Mezzogiorno in senso globale. Insomma, fermo restando il suo ancoraggio all’Europa, il Sud deve ripensare, anche in chiave teorica, la sua strategia di crescita che necessariamente dovrà articolarsi in senso bi-direzionale: verso la dimensione planetaria dell’economia globale e quella regionale del partenariato euro-mediterraneo. Questa è la nuova, grande sfida per i prossimi anni.

Il declino della Sicilia, il suo fatale enigma

All’interno di tale prospettiva si dovrà ricollocare il ruolo della Sicilia, grande regione europea e mediterranea, segnata da aspri contrasti e da grandi potenzialità.

Isola-baricentro del Mediterraneo, in passato sede d’incontro fra culture diverse, la Sicilia vanta una storia pluri-millenaria e un ricco patrimonio archeologico e monumentale che ne fanno uno fra i più importanti “giacimenti” culturali del pianeta.

E’ da circa 40 anni che andiamo proponendo, talvolta in solitudine, un’ipotesi euromediterranea per il futuro dell’Isola. Ora tutti si scoprono “mediterranei”. Anche se, nel migliore dei casi, il Mediterraneo è argomento di conversazione, nel peggiore motivo per lucrare sui finanziamenti europei.

In questi decenni, poco o nulla si è fatto per valorizzare la naturale vocazione mediterranea della Sicilia e, soprattutto, per superare gli ostacoli interni ed esterni che ne impediscono una sua proiezione dinamica e moderna.

Quest’Isola lenta e dubbiosa verso un “progresso” invadente e livellatore, battuta dal vento di scirocco che qui giunge impregnato dell’eco torrida di lontani deserti africani, sembra chiudersi in se stessa, rientrare nel suo fatale enigma. Alla politica è subentrata la cabala per cui comanda chi meglio riesce ad interpretare il mistero. Una fase difficile, dunque, segnata da una tendenza al declino, generale e diffuso.

Certo, anche nell’Isola si registrano cambiamenti positivi, ma non tali da allinearla, per redditi e qualità di vita, alle tendenze in atto in altre regioni italiane.

Si tratta, infatti, di poche realtà pregevoli, anche d’eccellenza, che rischiano d’infrangersi contro una sorta di “circuito dell’illegalità”, eretto intorno all’Isola da forze potenti, che svilisce gli sforzi mirati a sviluppare la produzione e una moderna organizzazione dei servizi e delle professioni.

Un declino evidente accelerato da taluni passaggi cruciali, fra i quali il temuto capovolgimento di ruoli fra politica e “poteri forti”, a favore di questi ultimi. Com’ è successo un po’ dovunque nel mondo a seguito del prevalere delle pratiche neo-liberiste, la politica ha perduto il suo primato, altre entità si sono insediate al posto di comando. Con una differenza però che in Sicilia a comandare non sono le grandi corporazioni multinazionali, ma oscure consorterie locali.

E la palma non potrà più salire…

Nonostante questa specificità, la Sicilia non è una scheggia impazzita all’interno di un sistema sano. La sua condizione riflette l’andamento generale della situazione italiana.

Esiste, infatti, un legame forte fra l’isola e la penisola, di scambio e di reciproca influenza colto a più riprese anche dalla letteratura, soprattutto straniera.

Alcuni esempi. Goethe, nel 1787, addirittura sentenziò: “Senza la Sicilia, l’Italia non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto”. (1) Edmonda Charles Roux, premio Gongourt 1966, forse più realisticamente, ha sottolineato come : “La Sicilia, nel bene e nel male, è l’Italia al superlativo”. (2) Il pensiero della Roux rende di più l’idea di una Sicilia “eccessiva” o, se si vuole, laboratorio-politico, anticipatore delle alleanze politiche nazionali.

Leonardo Sciascia intravide una “linea della palma” che dall’Isola sale verso il nord. Una dolente metafora per segnalare il pericolo di un’esportazione del “modello siciliano”verso la penisola. Punti di vista, naturalmente. Per altro, la profezia sciasciana non potrà più avverarsi visto che le palme non potranno più salire.

Almeno da Palermo, dove stanno morendo, attaccate da un parassita (il punteruolo rosso) che, come la vendetta di un dio spietato, sta facendo strage dei rigogliosi palmizi, fin dentro il celebre Orto botanico dei borboni.

Un regime a sovranità limitata

Per queste ed altre ragioni, il solco fra La Sicilia e il Paese si allargato. Il nuovo spazio è stato occupato da un sistema di potere arcaico, familistico, parassitario e mafioso che ha bruciato le migliori risorse e prodotto una classe dirigente consociativa, oscillante fra l’astrattezza politica e il gattopardismo più deteriore. Un sistema opprimente che ha generato un regime a sovranità limitata che ha conculcato i diritti fondamentali dei cittadini, trasformandoli in favori da concedere in cambio di voti e/o di tangenti, e sfumato i doveri dei governanti.

E dire che il molto speciale Statuto di autonomia, che fa della Sicilia “una quasi nazione”, avrebbe dovuto garantire all’Isola il massimo dello sviluppo possibile.

A differenza di altre regioni autonome, quali la Val d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia, la stessa Sardegna, l’Autonomia siciliana non ha prodotto i frutti sperati, ha deluso le attese, ha subito una sorte infelice: in parte non attuata e in parte abusata, stravolta.

Alla base di tale distorsione, penso ci sia un equivoco mai chiarito che di tanto in tanto riaffiora: l’autonomia invece di uno strumento di autogoverno e di crescita civile ed economica, è stata concepita come un surrogato del separatismo, per erigere intorno all’Isola un recinto, una sorta d’anello di fuoco, dentro il quale esercitare uno spudorato dominio e bloccare di là del Faro (di Messina) le innovazioni, i cambiamenti provenienti dall’Italia e dall’Europa.

Un secolo di migrazioni

Di conseguenza, oggi vediamo una regione bloccata nel suo naturale sviluppo, avvilita dal clientelismo, dalla disoccupazione, dal lavoro nero, sfregiata dall’abusivismo edilizio e non solo. Si vive una condizione per molti versi insopportabile, con la quale devono fare i conti i cittadini e gli imprenditori onesti, ossia la stragrande maggioranza della popolazione.

In primo luogo, i giovani ai quali resta una sola alternativa: adattarsi o fuggire. Una terza via non è praticabile. Si calcola che, nel quinquennio 2002-07, siano emigrati dall’Isola verso le ricche regioni del nord, almeno 150.000 giovani, in gran parte diplomati e laureati. Ancora emigrazione! Per i siciliani il novecento è stato il secolo dell’emigrazione.

Sono partiti a milioni verso le più lontane contrade del mondo e insieme ad altri hanno scritto uno dei capitoli più drammatici della storia universale delle migrazioni.

Si sperava che col boom economico italiano l’esodo si sarebbe interrotto. Invece è ripreso, anche se- nel frattempo- la Sicilia è divenuta terra d’approdo e di (mala) accoglienza per centinaia di migliaia d’immigrati provenienti dal sud del mondo. Oggi, con la recessione in atto, non sappiamo cos’altro potrà accadere.

Anche Platone se ne fuggì deluso

In questo clima di grave incertezza, molti si chiedono dove stia andando la Sicilia. Verso quale approdo, quale futuro? La risposta non è facile, anche se l’interrogativo non è più eludibile. Il futuro è il grande assente nell’immaginario dei siciliani. Un po’ tutti ne avvertono la mancanza: chi parte e chi resta.

Eppure non si chiede un avvenire mirabolante, ma un futuro da normali cittadini europei, una prospettiva migliore di questo opaco presente. Ai siciliani questo futuro è stato negato, rubato perciò preferiscono guardare al passato. Pensano e parlano al passato. Addirittura, nella parlata locale per indicare il futuro si usa il (verbo) presente. Ostentano un orgoglio, talvolta smisurato, per il loro passato visto come una sorta di eternità volta all’indietro nella quale, come nota Pessoa “ciò che passò era sempre meglio”.

Ovviamente, questa assenza di futuro non è una devianza grammaticale, ma la spia di un disagio psicologico collettivo che nasce dall’esperienza storica e spinge i siciliani a rifugiarsi in un mondo sepolto, mitizzato, ritenuto, più a torto che a ragione, migliore dell’attuale.

C’è chi chiama tutto ciò “pessimismo” inveterato, connaturato. Anche contro Leonardo Sciascia, per il quale la Sicilia era “irredimibile”, fu lanciata questa accusa che lo scrittore respinse con serena fermezza: “Come mi si può accusare di pessimismo se la realtà è pessima?” (3) In realtà, non si tratta di un’inclinazione pessimistica dei siciliani, ma della percezione di un male oscuro che permane nel tempo, fin dagli albori della storia siciliana, già durante la splendida civiltà siculo- greca. Significativa appare, a questo proposito, la “Settima lettera” di Platone (autentica o meno che sia) nella quale il sommo filosofo chiarisce le ragioni che lo spinsero a viaggiare, per ben tre volte e in condizioni drammatiche, da Atene a Siracusa per aiutare il suo discepolo Dione ad insediare in Sicilia la sua “Repubblica”.

Tentativi falliti, miseramente. Com’è noto, il filosofo, per salvarsi, fuggì precipitosamente dalla Sicilia, portandosi dietro l’amarezza della delusione patita: “Mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto…”

Insomma, anche nei tempi antichi la vita politica siciliana era piuttosto inquinata. Oggi la situazione è mutata, ma temo in peggio. Se Platone ritornasse per la quarta volta nella Trinacria avrebbe ben altro di cui lagnarsi.

Cambiare si può, si deve

Per concludere. La Sicilia ha un grande bisogno di libertà e di un forte recupero della sua identità culturale e storica che, senza scadere nella velleità indipendentista, per altro dolorosamente sperimentata, ridia ai siciliani il senso della loro storia e quindi la responsabilità di costruire un futuro di progresso nella legalità.

Si può fare. Importante è partire, riavviare la ricerca e la cooperazione fra tutte le forze sane dell’Isola che resistono ed attendono un segnale di autentica liberazione.

Ma i siciliani desiderano il cambiamento? Talvolta parrebbe di no. Si accetta di vivere, rassegnati, in una società immobile, individualista che tende ad escludere i settori più problematici, compresi i suoi figli ventenni.

In realtà, la maggioranza dei siciliani non è contenta di tale condizione, anzi la vive nell’angoscia, come nell’attesa del crollo. C’è una contraddizione latente fra consenso politico e spirito pubblico che nasce dallo scetticismo verso ogni ipotesi di cambiamento, verso un sistema politico, affaristico e consociativo, tale da far della Sicilia una regione “senza governo e senza opposizione” (4).

Tuttavia, sperare si può, si deve. Anche attraverso una sorta di autocoscienza collettiva. Tutti devono riflettere sulle condizioni e le sorti future della Sicilia, ripensare le loro azioni. Tutti e di più. Anche i mafiosi, ossia coloro che rappresentano il “male assoluto”.

A questa gente, ferme restando le responsabilità penali, bisogna provare a chiedere di riflettere sugli errori e sugli orrori commessi, ponendosi dal punto di vista di chi li ha subiti, per capire il dolore degli altri e cambiare rotta.

Soprattutto dovranno meditare e cambiare registro tutti coloro che hanno abusato del potere loro conferito dalla legge e dagli elettori. Alla Sicilia bisogna offrire una nuova chance. Qualcosa si muove sotto la superficie di questo mare cupo e limaccioso. Si agitano insofferenze e fermenti di cambiamento, s’intravede come una linea di riscatto in emersione attorno alla quale aggregare e mobilitare forze e risorse in grado di spezzare il circuito dell’illegalità, per riacquistare il futuro.


Note:

(1)Johann W. Goethe in “Viaggio in Italia”, Garzanti Editore, 1997

(2)Edmonda Charles Roux, “Oublier Palerme”, ed. Grasset, Paris, 1966

(3) Leonardo Sciascia “La Sicilia come metafora” (intervista di Marcelle Padovani), Arnoldo Mondadori Editore, 1979

(4) A. Spataro in “La Repubblica” del 17/4/2004


L’articolo di Agostino Spataro è stato pubblicato (in francese) con il titolo: "Mezzogiorno: du déclin à nouvelle frontiére méditeranéenne?" sul numero 68, febbraio 2009, della rivista francese "Confluences Méditerranéennes", della casa editrice parigina "l’Harmattan". Ringraziamo l’autore e Confluences per il permesso di pubblicazione.


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