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Dieci errori economici ricorrenti

Uno dei più persistenti è quello della finestra rotta. Uno rompe una finestra e questo viene celebrato come un boom dell’economia...

di Redazione - mercoledì 13 aprile 2005 - 4491 letture

Dieci errori economici ricorrenti 1774 - 2004 / di H.A. Scott Trask

Come storico americano che conosce qualcosa delle leggi economiche, avendo imparato dalla Scuola Austriaca d’Economia, sono rimasto intrigato da come gli Stati Uniti sono rimasti prosperi, con una economia ancora dinamica e produttiva, dati i gravi e ricorrenti errori economici nei quali i nostri capi (politici, accademici e imprenditori) sono incappati e dai quali sembra non riescano a liberarsi e - aimé - li passano alle generazioni seguenti. Prendiamone in considerazione dieci.

Mito 1 - La finestra rotta

Uno dei più persistenti è quello della finestra rotta. Uno rompe una finestra e questo viene celebrato come un boom dell’economia: il fabbricante di finestre riceve una ordinazione, il negoziante vende una nuova finestra, un carpentiere viene assunto per istallarla, la moneta circola, vengono creati posti di lavoro, il PIL sale. In verità, naturalmente, l’economia non migliora assolutamente.

E’ vero che c’è un improvviso aumento d’attività - e qualcuno ci guadagna veramente - ma solamente a spese del proprietario la cui finestra è stata rotta, o della sua compagnia d’assicurazione. In quest’ultimo caso, i clienti della compagnia vedranno aumentare il premio da pagare per la polizza, specialmente se vengono rotte molte finestre.

L’errore sta nella difficoltà nell’afferrare le conseguenze della riparazione e della ricostruzione - il lavoro ed il capitale speso che avrebbero potuto essere impiegati per costruire qualcosa di nuovo. Questo errore, che parrebbe così semplice da spiegare e da capire, anche se richiede uno sforzo intellettuale ed una particolare astrazione mentale, rimane non sradicabile.

Dopo l’orribile distruzione delle Torri Gemelle nel settembre 2001, i media hanno citato economisti accademici e professionali che ci rassicuravano sul fatto che la risposta del governo agli attacchi avrebbe portato ad una fine della recessione. Quello che non si diceva è che le risorse destinate alla riparazione, alla sicurezza e alle guerre sono risorse che non possono essere impiegate per creare beni per i consumatori, per costruire nuove infrastrutture o per migliorare la nostra civiltà. In realtà, stiamo peggio a causa dell’11 settembre 2001.

Mito 2: la beneficienza della guerra

Un secondo errore è l’idea della guerra vista come un motore di prosperità. Agli studenti viene insegnato che la seconda guerra mondiale fece finire la depressione. Molti americani sembrano credere che le tasse spese per commesse militari (che creano lavoro) non siano una perdita per l’economia produttiva. I nostri capi politici continuano a credere che una maggiore spesa statale sia un buon sistema per far finire una recessione e per ravvivare l’economia.

La verità è che la guerra ed i suoi preparativi sono uno spreco economico distruttivo. A parte le ricchezze guadagnate con la vittoria (se si vince), la guerra e le spese militari sprecano lavoro, risorse, e ricchezza, lasciando il paese più povero del caso in cui queste risorse fossero state utilizzate per scopi civili.

Durante la guerra, le potenzialità di produzione di un paese vengono deviate alla produzione di armi e munizioni, per trasportare gli armamenti e i rifornimenti e per dare supporto agli eserciti in campo.

William Graham Sumner descrisse come la guerra civile, durante la quale lui visse, aveva sprecato lavoro e capitali:

"I mulini, le fonderie e le fabbriche erano attive nel lavorare per il governo, mentre gli uomini che mangiavano il grano ed usavano i vestiti erano impiegati per distruggere e non per creare il capitale. Questa era certamente la guerra. E’ quello che significa la guerra e che non porta prosperità".

Niente è più basilare ma continua ad essere ignorato dai nostri insegnanti, scrittori, professori e politici. I 40 anni di guerra fredda hanno impoverito il nostro paese sottraendo ricchezza, distruggendo capitali e sprecando la forza lavoro di milioni di persone la cui vita - sia che fossero soldati, marinai o lavoratori del settore della difesa - veniva impiegata per creare l’impero, per combatterne le guerre segrete, per fare armi invece di costruire la nostra civiltà con cose utili, con il benessere e la bellezza.

Qualcuno potrebbe obiettare che la Guerra Fredda fosse una necessità, ma non è questo - già si sa che la CIA, in uno dei suoi più gravi errori d’intelligence sovrastimava la capacità militare sovietica e la dimensione della sua economia stimandola il doppio più grande e produttiva di quello che era. Il punto è lo spreco della guerra e della sua preparazione. Io non vedo segni del fatto che i nostri capi o la nostra gente lo capiscano oppure semplicemente che ci pensano. La comprensione e la consapevolezza su queste realtà economiche può portare ad una indagine più seria sugli scopi ed i metodi che l’amministrazione Bush ha scelto per la Guerra al Terrore.

Solo pochi giorni dopo l’11 settembre Rumsfeld dichiarò che la guerra sarebbe durata tanto a lungo quanto la guerra fredda (quaranta anni e passa), o anche di più - una rivendicazione che l’amministrazione ha ripetuto frequentemente da allora - senza sollevare nessun dubbio o domanda da parte dei media, del pubblico od il partito all’opposizione. Sarebbe il caso accadesse, se la gente si rendesse conto quanto una seconda guerra fredda, questa volta contro l’Islam, ci costerebbe in termini di vite, ricchezza e benessere e piaceri perduti?

Mito 3. Il miglior modo per finanziare una guerra è prendere a prestito dei soldi

A cominciare dalla guerra d’indipendenza e continuando fino alla Guerra al Terrore, gli americani hanno scelto di pagare le loro guerre prendendo a prestito i soldi e inflazionando la moneta. Adam Smith credeva che la guerra doveva essere finanziata attraverso una tassazione: in questo modo la gente avrebbe capito quanto veramente la guerra sarebbe loro costata e così avrebbero potuto meglio giudicare se fosse stata realmente necessaria.

Nonostante egli concedesse che il prendere a prestito i soldi nella prima parte della guerra, prima che i proventi delle tasse non avessero raggiunto le casse del Tesoro, lui insisteva che il prendere a prestito i soldi sarebbe dovuto avvenire in minima quantità e solo come un espediente temporaneo.

Il prendere a prestito i soldi aumenta i costi della guerra sotto forma di interessi. L’inflazione della valuta, che spesso segue il massiccio ricorso al prestito - come accadde con la guerra d’indipendenza, la guerra tra gli stati, la guerra del Vietnam (tanto per nominarne tre) - è il modo peggiore di finanziare la guerra poiché fa salire i prezzi, lievitare i costi, aumentare il debito, produce investimenti sbagliati e speculazione e peggiora l’effetto redistributivo delle spese di guerra.

Nel 1861, l’amministrazione Lincoln decise che la gente del nord non avrebbe sopportato molte tasse e che questo avrebbe aumentato l’opposizione della gente alla guerra contro il sud. Secondo Sumner, la questione finanziaria del giorno era

"se si dovesse continuare la guerra utilizzando monete di valore, prezzi bassi e poche importazioni, oppure utilizzando emissioni di banconote che avrebbero portato all’aumento dei prezzi e ad ingenti importazioni".

Venne scelta la seconda soluzione e le conseguenze furono il debito nazionale che arrivò dai 65 milioni di dollari del 1860 ai 2,7 miliardi di dollari nel 1865 ed una massiccia redistribuzione di ricchezza ai detentori di buoni del tesoro.

Nel 1865, la questione finanziaria si pose un’altra volta. Era: "Dobbiamo ritirare la cartamoneta, recuperare i metalli (oro e argento), ridurre i prezzi, diminuire le importazioni, ridurre il debito e vivere in economia finché non abbiamo recuperato le perdite della guerra oppure continuiamo ad usare la carta, esportiamo i metalli preziosi che erano stati messi a garanzia dei prestiti, compriamo prodotti stranieri ed andiamo avanti facendo finta di niente?"

La strada più semplice fu quella che venne nuovamente scelta (i pagamenti con metalli non vennero ristabiliti fino al 1879, quatordici anni dopo e quasi venti anni dopo la sospensione del 1861) e la conseguenza fu un mercato borsistico gonfiato dall’inflazione ed un boom delle ferrovie che culminò col panico del 1873, con il fallimento della House of Cook ed il grande sciopero dei ferrovieri del 1877, il primo grande scoppio di violenza industriale su larga scala nella storia americana.

Mito 4. Spendere il deficit fa bene all’economia ed al debito governativo

Tre anni fa, quando il segretario del Tesoro Paul O’Neill obiettò alla politica di Bush del burro e delle cannoniere e dei tagli alle tasse, gli venne detto dal vicepresidente Dick Cheney che "il deficit non ha importanza".

Ovviamente i deficit non hanno importanza-per lui, ma contano per il paese.

La cura della depressione suggerita da John Maynard Keynes include il taglio delle tasse ed un aumento delle spese statali. "Siamo tutti Keynesiani, adesso": dovrebbe essere questo il nuovo motto da incidere sul fronte del palazzo del Tesoro a Washington.

Tuttavia, Keynes diceva che quando la recessione è passata, la spesa statale andava ridotta, le tasse aumentate ed il deficit eliminato.

Attualmente la politica americana è di continuare l’indebitamento dopo che è passata la recessione, e di proseguire l’indebitamento in tempo di pace come in tempo di guerra. Una antica critica di questa politica è che l’indebitamento del governo "allontana" l’investimento privato aumentando i tassi d’interesse.

In un’era in cui la creazione del debito è così facile, gli interessi rimangono bassi nonostante un massiccio indebitamento che raggiugne i 500 miliardi all’anno, gli economisti non prendono più sul serio questa obiezione.

Un’altra critica dice che accumulando il debito si condannano le nuove generazioni con un gran peso che è sia ingiusto che deprimente per una futura crescita. Ancora una volta, gli economisti ed i politici ritengono che questa obiezione sia infondata. Essi pensano che le future generazioni ricaveranno benefici da ulteriori indebitamenti - più sicurezza, più infrastrutture, una salute migliore e maggior benessere - e poiché il capitale non verrà mai ripagato, non sarà un gran peso comunque.

Si sbagliano: evitando di dover aumentare le tasse, l’indebitamento nasconde il prezzo che si dovrà pagare per una maggior spesa pubblica (la deviazione distruttiva del lavoro e del capitale dagli scopi privati a favore dei progetti governativi) e genera una pubblica opposizione potenziale a nuove e maggiori iniziative governative, da noi e altrove. Si tratta di qualcosa contemporaneamente non repubblicano ed antidemocratico.

In secondo luogo, a seconda di quanto a lungo sia demandato il pagamento del capitale, l’accumulo degli interessi può raddoppiare, triplicare, quadruplicare... il costo della spesa iniziale (il nostro paese non è ancora stato in grado di ripagare il debito acceso durante la guerra civile!).

In terzo luogo, il pagamento degli interessi rappresenta un perpetuo trasferimento di ricchezza dai lavoratori ai possessori di buoni del tesoro - una specie di tassa regressiva che rende i ricchi sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri.

Infine, il debito introduce nuove e completamente artificiali forme di incertezza nei mercati finanziari dove ognuno cerca di indovinare se il debito verrà ripagato con le tasse, con l’inflazione oppure per niente.

Mito 5. Le politiche governative per promuovere le esportazioni sono una buona idea

L’errore per cui il governo sarebbe un miglior giudice dei modi più profittevoli per direzionare il lavoro ed il capitale - piuttosto che gli individui - viene bene illustrato dalle politiche per le esportazioni. Nel ventesimo secolo, il governo federale ha cercato di promuovere le esportazioni in vari modi. Il primo consisteva nel costringere all’apertura i mercati esteri attraverso la combinazione delle pressioni militari e diplomatiche, tenendo allo stesso tempo chiuso, o parzialmente chiuso, il nostro stesso mercato. La famosa politica delle "porte aperte", formulata dal Segretario di Stato John Hay nel 1899 non aveva mai preteso di rendere reciproco l’effetto (dopo tutto, lui lavorava nell’amministrazione McKinley, la più arciprotezionistica della storia americana) e spesso richiedeva una nave armata ed un contingente di agguerriti marines per tenere e aprire con un calcio quella porta. Un secondo sistema era il sussidio alle esportazioni, che ancora ci accompagna. La Banca Export-Import (ndt: quella che abitualmente finanzia l’esportazione di tecnologie nucleari) venne creata da Roosevelt nel 1934 per fornire aiuti in contanti, prestiti garantiti dal governo e credito a basso costo agli esportatori ed ai loro clienti d’oltremare. Esiste ancor oggi -i nattaccata da "supposti" amministratori e deputati repubblicani "a favore" del libero mercato. Un terzo sistema era attraverso la svalutazione del dollaro per rendere conveniente il prezzo dei prodotti americani all’estero. Nel 1933, Roosevelt portò il paese fuori dallo standard dell’oro e lo rivalutò a 34,06 dollari l’oncia, cosa che rappresenta una significativa svalutazione. Lo scopo era di permettere una maggior inflazione domestica e di spronare le esportazioni, specialmente quelle agricole, cosa che fallì: ora Bush ci riprova. Un quarto metodo, sperimentato dall’amministrazione Reagan, era di abbassare i costi delle fattorie per incrementare le esportazioni, chiudendo la forbice della bilancia dei pagamenti. Il piano consisteva nel far vendere prodotti americani sottocosto, catturare i mercati e rastrellare la valuta estera. (Quando lo fanno gli altri, noi denunciamo questa pratica come scorretta, come commercio predatorio). Che successe? Bene, venne fuori che il mercato di esportazione agricolo era abbastanza elastico. Paesi come il Brasile e l’Argentina, che dipendono dalle esportazioni agricole come una tra le poche fonti di valuta estera di cui hanno disperatamente bisogno per pagare i loro debiti da prestiti, tagliarono semplicemente i loro prezzi per adeguarli a quelli americani. Il piano fallì.

Ma andò anche peggio: gli agricoltori americani dovettero vendere maggiori quantità (a prezzi più bassi) solo per andare in pareggio. Nonostante ciò, mentre il volume totale delle esportazioni agricole americane aumentava, il loro valore reale (in dollari costanti) cadde: più lavoro e meno profitti. Inoltre i contadini dovevano importare più petrolio ed altri prodotti per espandere la loro produzione, cosa che peggiorò la bilancia dei pagamenti. Allora vennero gli effetti collaterali imprevisti e deleteri. L’espansione della coltivazione e l’allevamento di bestiame esaurì e degradò la qualità dei terreni, inquinò i corsi d’acqua ed abbassò il valore nutrizionale della maggior raccolta di vegetali, granaglie e proteine animali.

Infine, la politica di un minor prezzo ed una maggior quantità portò molti piccoli agricoltori, da noi ed all’estero, fuori dai campi e nelle città, e oltrefrontiera, la nostra frontiera. Questa fu una politica economica che non solo fallì nei suoi scopi ma peggiorò proprio i problemi che intendeva alleviare causando una catastrofe nutrizionale, ecologica e demografica.

Mito 6. La guerra commerciale funziona

Sumner chiarì che gli americani che avevano dichiarato la loro indipendenza, non si erano difatti liberati dagli errori del mercantilismo. I mercantilisti credono che il governo deve sia regolare che promuovere alcuni tipi di attività economiche poiché l’economia non sarebbe in grado di autoregolarsi né di raggiungere la massima efficienza, se lasciata a se stessa. Così nella loro lotta per l’indipendenza, gli americani adottarono due politiche dubbie: la guerra commerciale e la finanza inflazionaria della guerra.

Non voglio riscrivere la storia dei "Continental" che si deprezzavano (ndt: moneta emessa durante la guerra) - cosa che portò alla confisca di proprietà senza una giusta compensazione, derubò i creditori, impoverì i soldati ed i marinai, portò al controllo dei prezzi ed ad un maggior debito di guerra - ma devo precisare cosa Sumner dimostrò così ampiamente nella sua storia finanziaria della Guerra Rivoluzionaria: la guerra commerciale danneggiò gli americani molto più che gli inglesi.

Nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, la guerra commerciale prese la forma del boicottaggio e dell’embargo. L’idea era che chiudendo il nostro mercato ai prodotti inglesi, o negandogli i nostri prodotti, dell’agricoltura e delle materie prime, avremmo potuto obbligarli pacificamente a cambiare le loro politiche. Questa politica funzionò solo una volta, obbligando gli inglesi a ritirare la legge Stamp Act nel 1765, ma da allora in poi, ogni volta che ci abbiamo riprovato, li rese antagonisti e portati a qualche forma di rappresaglia. Nel 1774-1775, all’alba della guerra. gli americani avevano disperatamente bisogno di rifornimenti per preparare la guerra: gli inglesi ci fornirono i prodotti migliori al miglior prezzo.

Rifiutando di effettuare scambi commerciali, con la speranza di costringere gli inglesi a ritirare le loro leggi Coercive Acts, gli americani cominciarono la guerra soffrendo di mancanza di rifornimenti che col tempo peggiorò. Dopo alcuni anni di guerra, ci ritrovammo con la necessità di commericare col nemico, cosa che venne fatta attraverso l’Olanda e le isole West-Indian di Antigua e Sant’Eustachio. L’embargo del presidente Jefferson del 1807-1809 fu un fiasco completo. Non solamente fallì nello scopo di forzare gli inglesi ed i francesi a rispettare il nostro commercio neutrale, ma devastò l’economia del New England che dipendeva dal commercio e dalla costruzione di navi, infierì sulle piantagioni del sud (che non potevano più esportare), ridusse le rendite dalla tassa federale e portò lo stato del New England sull’orlo della secessione. (ndt: qualcosa di simile sta avvenendo con l’Italia nel nord a causa della triplice tassazione: signoraggio, inflazione e tasse "normali").

Mito 7. Il tardo diciannovesimo secolo fu un’era di capitalismo "Laissez-Faire"

Certamente il tardo diciannovesimo secolo NON fu un periodo di laissez-faire, nonostante il testardo e persistente mito che afferma il contrario. In verità, v’erano pochi regolamenti governativi sull’imprenditoria, ma alti dazi, sussidi alle ferrovie ed il sistema bancario nazionale dimostra che il governo non era un osservatore neutrale. Sumner molto accuratamente lo descrisse come l’era della plutocrazia, nella quale la ricchezza, organizzata politicamente, usava il potere dello stato per i suoi interessi e vantaggi.

Egli ci mette in guardia: "Da nessuna parte nel mondo v’è il pericolo della plutocrazia così come c’è da noi". A causa di queste indiscrezioni, la gerarchia degli industriali manufatturieri e dei detentori di buoni del Tesoro cercò di allontanare Semner dall’Università di Yale dove si pensava che avrebbe "intossicato" le giovani menti dei loro figli con le eresie del libero commercio. Solamente durante due periodi dal 1776 il governo ha lasciato in pace l’economia: durante i primi anni della repubblica federale e nei due decenni prima della Guerra Civile. L’economista politico Condy Raguet chiamò il primo periodo di libertà economica, dal 1783 al 1807, "l’età d’oro" della repubblica. Il commercio era libero, le tasse erano basse, la moneta era solida e gli americani godevano più libertà economica di qualsiasi altro popolo del mondo. Il Prof. Sumner pensava che gli anni tra il 1846 ed il 1860 - l’era del tesoro indipendente, dei bassi dazi e della moneta d’oro - fossero davvero "l’età dell’oro"".

(Gli storici considerano i presidenti di quest’ultimo periodo - Fillmore, Pierce e Buchanan - come tra i peggiori che abbiamo mai avuto. Invece proprio in questo periodo, tra il 1848 ed il 1860, il paese era in pace, l’economia era prosperosa, le tasse basse, la moneta solida ed il debito pubblico si stava riducendo. Questo la dice lunga su cosa gli storici intendano per "grandiosità politica". Mito 8. Le società commerciali favoriscono il libero commercio

Mai nella storia del nostro paese le società, i finanzieri di Wall Street, i detentori di titoli di stato ed altri grandi capitalisti, come classe di interessi, hanno favorito una politica di libertà economica e di non interventismo da parte del governo. Essi hanno sempre favorito qualche forma di mercantilismo. E’ sicuramente significativo che il Secondo Partito Repubblicano, fondato nel Michigan nel 1854, era finanziato e guidato da uomini che volevano rovesciare i desideri libertari degli anni 1840 e 1850. Naturalmente ci sono state delle eccezioni.

I mercanti ed i proprietari di navi del marittimo New England fecero una gran lotta per il libero commercio e per una moneta solida nei primi anni della repubblica. I banchieri di New York City del diciannovesimo secolo erano dei democratici che appoggiavano il libero commercio, le tasse basse, la moneta solida e lo standard dell’oro. Ma c’erano delle eccezioni. Sentiamo la testimonianza di William Simon, che era segretario al Tesoro sotto Nixon:

"Ho osservato con incredulità come gli uomini d’affari si rivolgono al governo durante ogni crisi, piagnucolando per una protezione ed una mano contro la competizione che aveva reso il nostro sistema così produttivo. Ho visto proprietari terrieri del Texas, colpiti dalla siccità, che chiedevano prestiti garantiti dal governo; cooperative lattiere giganti che facevano pressione per praticare prezzi alti; le maggiori compagnie aeree che combattevano la deregulation per mantenere il loro stato di monopolio; gigantesche società come la Lockheed che cercavano assistenza federale per salvarsi dalla loro profonda inefficienza; banchieri, come David Rockefeller, che chiedevano salvataggi dal governo per proteggersi dai loro investimenti malati; reti di dirigenti, come William Paley della CBS, che combattevano per mantenere restrizioni legali e per bloccare sul nascere le reti televisive concorrenti. E sempre, questi gentiluomini, proclamavano la loro devozione alla libera imprenditoria e la loro opposizione all’intervento arbitrario nella vita economica da parte dello stato. Eccetto, naturalmente, quando si trattava del loro caso, che era sempre unico e che era giustificato dalla loro immensa preoccupazione per il pubblico interesse.

Durante il diciannovesimo secolo, quelli che strillavano più forte e con più efficacia per un intervento governativo nell’economia erano uomini d’affari, ma naturalmente lo facevano anche gli agricoltori. Gli uomini d’affari volevano politiche preferenziali sotto forma di dazi di protezione, una banca nazionale ed il pubblico finanziamento di "miglioramenti interni" come ponti, autostrade a pedaggio e canali. Dal 1820, quelli che proponevano questo programma lo chiamavano "sistema americano", di cui era campione preminente il senatore Henry Clay del Kentucky. Il Raguet, più accuratamente, lo chiamava "sistema inglese". Clay corse per la presidenza con questo programma per tre volte, e perse tre volte: nel 1824, nel 1832 e nel 1844. Il suo protetto, Abraham Lincoln, imparò dall’esperienza e così quando si propose per presidente nel 1860, sperando di implementare lo stesso programma, raramente ne faceva parola. Al contrario, prometteva di salvare i territori del west dal dramma della schiavitù e di rovesciare il "potere schiavo" - un bel camuffamento politico che funzionò in modo brillante. Il sistema americano era una forma egregia di redistribuzione politica degli interessi forti. Arricchì le piantagioni di zucchero della Louisiana, i coltivatori di canapa del Kentucky, gli allevatori di pecore di New York, i produttori di ferro della Pennsylvania, i magnati tessili del New England, le società del canale e le ferrovie - tutto a spese dei contadini, dei piantatori, degli operai e dei consumatori. Il movimento protezionista anteguerra raggiunse il suo apogeo con il dazio del 1828, che raddoppiò le tasse doganali fino ad una media del 44% nel 1829 e del 48% l’anno dopo.

A quel tempo, Raquet calcolò che l’americano medio lavorava un mese dell’anno solo per pagare il dazio. Ai suoi lettori, che non pagavano alcuna tassa federale, né accise, questa quantità parve impressionante. Nel 1830, il giorno della libertà dalle tasse era il primo febbraio. Oggi bisogna lavorare fino a giugno, per pagare le tasse: cinque volte di più.

Un altro trasferimento di reddito era effettuato attraverso il vizioso sistema bancario del tempo, sotto il quale i banchieri incorporati, senza capitale, caricavano gli interessi per affittare in cambio pezzi di carta (banconote) e depositi a vista che a lorto costavano niente, a parte il costo di stampa. Alcuni libertari dicevano che questa era l’era della libera pratica bancaria. Non era affatto così: i banchieri erano protetti dallo scudo della responsabilità limitata e, durante il panico finanziario quando c’era la corsa agli sportelli, da leggi speciali che sospendevano l’obbligo del pagamento in moneta - quando essi rifiutavano di dare moneta sonante in cambio dei loro pezzi di carta.

La loro cartaccia veniva accettata per il pagamento delle tasse dalle regioni e dallo stato. Se uno comprava terra, pagava dazi d’importazione, comprava titoli o azioni di banca, per il governo, le banconote erano buone come l’oro. Queste misure plutocratiche effettuavano una redistribuzione della ricchezza, ben prima del nascere del socialismo. Sumner diceva che i plutocrati della sua epoca di dopoguerra (manufattori, baroni delle ferrovie, banchieri nazionali e detentori di buoni del tesoro) stavano "semplicemente cercando di fare quello che i generali, i nobili ed i preti avevano fatto in passato - prendere il potere dello stato nelle loro mani, in modo da opprimere i diritti altrui a loro proprio vantaggio".

I plutocrati di oggi sono ancora a quel punto, con ancora più successo, quasi senza alcuna opposizione.

Mito 9. Hamilton era grande

Un altro mito è quello del fatto che il genio finanziario ed economico dell’uomo di stato Alexander Hamilton aveva salvato il credito degli Stati Uniti in fasce e aveva stabilito basi economiche e finanziarie solide essenziali per la futura crescita e prosperità. La biografia agiografica di Ron Chernow su Hamilton sta diventando un best seller, riempiendo gli scaffali delle maggiori librerie: il suo scopo è di perpetuare il mito di Hamilton per un’altra generazione.

La biografia concisa e devastante che ne fa Sumner di questo vanaglorioso trombone pusillanime, scritta oltre cento anni fa, rimane la cosa migliore da leggere. Il Prof. Samner ha studiato approfonditamente le lettere e gli scritti di Hamilton - inclusi i tre principali. il Rapporto sul Credito Pubblico (1790), il Rapporto su una Banca Nazionale (1790) ed il Rapporto sui Manifatturieri (1791) - ed è arrivato a tre conclusioni: primo, Hamilton non aveva mai letto il Wealth of Nations di Smith (1776), il più importante trattato economico scritto nel mondo anglo-americano del periodo; secondo, era un mercantilista che si sarebbe trovato a casa sua lavorando nel ministero di Sir Robert Walpole o di Lord North; terzo, Hamilton credeva molte cose che non erano vere - che i buoni federali fossero una forma di capitale, che il debito pubblico fosse una benedizione nazionale, che l’esistenza delle banche aumentava il capitale del paese, che il commercio estero impoveriva un paese della sua ricchezza, se non c’era un surplus di esportazioni, e che tasse più alte erano un incentivo all’industria e necessarie perché gli americani erano pigri e si divertivano troppo.

L’idea era che se tu tassi di più gli americani, loro avrebbero lavorato di più per mantenere il loro standard di vita, aumentando così il prodotto lordo del paese e fornendo al governo con più soldi da spendere in grandi progetti ed avventure militari. Hamilton venne preso a sassate una volta da una folla inferocita di operai a New York. Capite ora perché?

Mito10.Agricoltura o industria: dobbiamo scegliere

Gli storici insegnano che gli americani del 1790 e del 1800 avevano due scelte economiche - Hamilton ed i federalisti che credevano nella moneta solida, nelle banche, nell’industria e nel progresso economico, ed i Jeffersoniani che credevano nell’inflazione, nell’agricoltura e nella stasi. Questa è una rozza semplificazione. Non tutti i federalisti erano Hamiltoniani: molti lo disprezzavano. Hamilton riteneva dogmaticamente che gli Stati Uniti dovessero divenire una nazione manifatturiera come l’Inghilterra e che fosse dovere del governo federale di raggiungere questo obiettivo attraverso politiche di promozione. Jefferson, d’altro canto, oscillava tra il liberalismo e l’agricoltura. Al meglio, era un liberale, ma per lungo tempo credette dogmaticamente che gli Stati Uniti dovessero rimanere un paese agricolo e che fosse dovere del governo federale mantenerlo tale ritardano lo sviluppo manifatturiero su larga scala.

Così, per espandere il commercio, avrebbe dovuto: combattere i poteri protezionistici ed i gruppi commerciali ostili, acquisire più terra coltivabile attraverso acquisti o guerre e, dopo aver ottenuto la necessaria legge, finanziare la costruzione di migliorie interne per facilitare il movimento della produzione agricola fino ai porti.

Per questo, Jefferson autorizzò l’acquisto della Louisiana, la guerra Tripolitana, l’Embargo, ed il suo successore prescelto, James Madison, la guerra del 1812, tutto per soddisfare questa visione agraria. Come presidente, Madison divenne ancor più Hamiltoniano, appoggiò il ristabilimento della Banca degli Stati Uniti, l’aumento delle tasse, la coscrizione e la nomina di nazionalisti alla Corte Suprema. Nominò Joseph Story, che sarebbe come dire che Ike mise Earl Warren, o Bush che nomina Souter. Nel frattempo, ormai in pensione, Jefferson difendeva l’industria manifatturiera per raggiungere l’autosufficienza economica nazionale.

Perché non la libertà?

Oltre all’appoggio dell’industria e dell’agricoltura, c’era una terza posizione - chiamatela liberalismo o laissez-faire - che sosteneva che il governo non deve promuovere né le manifatture né l’agricoltura, ma lasciarle in pace, che prosperino o no, che si espandano o recedano, a seconda della profittabilità, dell’utilità, della scelta individuale e delle leggi economiche. Ispirata dagli scrittori Adam Smith e David Ricardo, ma ancor più dalla scuola radicale francese di Turgot, Say e de Tracy, i cui motti "laissez nous faire" (lasciateci in pace) e "ne trop gouverner" (non governare troppo) ispirava l’essenza del buon governo.

Eminenti rappresentanti di questa filosofia liberale furono il giovane Daniel Webster, che si fece una reputazione per l’arte oratoria con fieri discorsi a favore del libero commercio, della moneta solida e dei diritti statali, come deputato del New Hampshire, ed il grande John Randolph della Virginia, che litigò con Jefferson sull’embargo e si era opposto alla guerra del 1812, perdendo di conseguenza il suo seggio, e Condy Raguet, l’influente economista politico che fu il primo americano a sviluppare una teoria monetaria del ciclo economico, cosa che fece in risposta al panico del 1819. Il laissez-faire era la causa che si opponeva alla plutocrazia e stava dalla parte della gente. Rappresentava il ragionamento sia etico che di buona economia.

Conclusione

Quando stava scrivendo il suo magistrale "Storia della moneta americana", Sumner era preso dalla questione di come il nord America potesse sopportare livelli di inflazione ed indebitamento che avrebbero rovinato qualsiasi paese europeo. La sua risposta fu: "Il futuro che stiamo scontando così liberamente onora le nostre cambiali su questo. Sei mesi di sacrifici per metterci a posto, e le nostre creazioni creditorie, come anticipazioni di futuro prodotto del lavoro, si solidificheranno".

In altre parole, il paese era così produttivo che le perdite portate da questi eccessi venivano presto risolte. Aggiunse: "Ci vantiamo spesso delle risorse del paese, ma non abbiamo fatto il paese. Che motivo c’è di vantarsi? Il problema per noi è: cosa ne stiamo facendo? Nessuno può apprezzare giustamente le risorse naturali di questo paese finché, studiando gli effetti deleteri di una cattiva moneta e di una cattiva tassazione, si sia fatto un’idea su quanto, dai primi che ci si sono insediati, sia stato sprecato e perso".

Le cose che non si vedono. Cominciamo con la geografia e le risorse, alle quali Sumner allude. I 48 stati più bassi sono interamente in zone temperate. A parte gli stati desertici del sud-ovest, tutti ricevono abbondanti piogge. La maggior parte della terra è fertile ed abbondante. Il paese trabocca di risorse naturali.

Poi ci sono le persone. Fino a poco tempo fa, gli Stati Uniti godevano di una bassa densità di popolazione, che significava stipendi alti e prezzi bassi per la terra. Per secoli la popolazione è stata una delle più industriose del mondo, creando una infrastruttura sulla quale costruire. Poi c’è la cultura. Molto a causa della cristianità, l’invidia qui non ha ragione d’essere, a differenza del terzo mondo dove forse è l’impedimento maggiore alla creazione di ricchezza ed allo sviluppo.

Anche per lo stesso motivo, c’è poca corruzione che anch’essa impedisce la crescita. Infine, esiste la tradizione della legge, il rispetto per la proprietà privata, la tradizione del profitto e la libertà contrattuale. Queste istituzioni - e non le idee fallaci, le istituzioni corrotte e le cattive politiche menzionate sopra - formano il cuore della prosperità americana.


Lo storico Scott Trask è un discepolo del Mises Institute, sede principale della Scuola Austriaca d’Economia. www.mises.org

In Italia vi sono almeno 5 economisti austriaci:

- Marco Bassani - Università di Milano; Mises Institute
- Enrico Colombatto - Universita’ di Torino http://web.econ.unito.it/colombatto
- Raimondo Cubeddu - Università di Pisa
- Roberta Adelaide Modugno - Università di Roma 3
- Carlo Lottieri - Università di Siena

Eppure il capitale di per sé è buono. Perché è spirito, materializzato attraverso sudore della fronte, nella moneta, che proviene dal manas, che è mente, memoria, così come pure il capitale proviene dal dal capo. Se la testa umana è cosa buona e giusta, anche il capitale lo è!


Articolo pubblicato da Nereo Villa, Link a sito

tradotto da M. Saba (26 luglio 2004)

Articolo originale: Ludwig von Mises Institute


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