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Cosa fare in Libia

Articolo pubblicato sul blog di VISION (Roma - Italia) in data odierna

di Emanuele G. - martedì 31 marzo 2015 - 2309 letture

All’improvviso la Libia è diventata un incubo per noi europei. Tuttavia – è bene ricordare – lo si sapeva da tempo della caotica situazione libica. Certo ora abbiamo l’aggravante dell’IS che è sbarcato sulle sponde del Mar Mediterraneo. Nel mezzo abbiamo un’Europa che veleggia a vista non avendo una strategia programmata sulla Libia. Si passa da posizioni interventiste ad altre più “morbide”.

Eppure una buona volta per tutte questo rebus denominato “Libia” dovrà essere risolto. Però ci dobbiamo ricordare, prima di elaborare qualsiasi linea strategica, due dati non proprio rassicuranti: i gruppi in lotta sono circa 1.500, mentre gli uomini armati più di 1.000.000! Dati impressionanti che rappresentano in maniera icastica il bubbone Libia allocato a un tiro di schioppo da noi. A ciò aggiungasi la notizia secondo cui gruppi jihadisti hanno già messo le mani sull’arsenale chimico del Colonnello Gheddafi. Un’appropriata strategia, a mio parere, dovrebbe prevedere un doppio binario: l’utilizzo allo stesso tempo del bastone e della carota. L’azione andrà programmata per tempo e con intelligenza tattica. Abbiamo visto troppe missioni di pace (“peace keeping” o “peace enforcement”) fallire miseramente gli obiettivi prefissati.

Non sarà facile. Per nulla. Il primo punto all’ordine dovrebbe essere quello di isolare i jihadisti dell’IS rispetto a tutti gli altri gruppi armati attivi in Libia. Gruppi armati organizzati per tribù, clan, fazioni, religione, credo politico e altro ancora. Ma molto facili a “farsi comprare” e “comprare”. Un altro punto all’ordine dovrebbe riguardare il sequestro di quante più armi possibili. Con 1.000.000 di uomini armati deve circolare in Libia un numero spropositato di armi di tutti i tipi. Pertanto, provvedere al sequestro e distruzione delle armi è una “condicio sine qua non” improcrastinabile. In contemporanea ai succitati punti va perseguita una costante azione di polizia contro i jihadisti. Secondo recenti analisi ci vorrebbero 100.000/200.000 militari impiegati. Tuttavia, il modello non deve essere quello della guerra classica. Bensì un mix composto da forze speciali, pattugliamenti costieri, ricognizione aerea e intelligence. Ciò permetterebbe di aver un modello flessibile e tarato sulla tipologia di azione da perseguire.

E’ innegabile che il punto di snodo strategico debba riguardare cosa fare nel dopo. Evitando – sarebbe cosa grata – le magre figure poste in essere dalla comunità internazionale in riferimento all’ “esportazione della democrazia”. La Libia si ricomporrà soltanto assecondando le precipue caratteristiche etniche e sociali delle varie popolazioni che vi risiedono. La base della Libia è la tribù. Tutto ruota attorno a questo item socio-politico. Ca va sans dire che tale obiettivo debba essere accompagnato da misure atte al benessere collettivo della popolazione libica. Mi riferisco a scuola, sanità, trasporti e lavoro. Questo anche nell’interesse dell’Europa perché è in Libia che devono trovare lavoro gli extra-comunitari che vi giungono. Una misura del genere impedirebbe loro di proseguire e sbarcare in Sicilia o in Calabria.

Ho tralasciato in ultimo una criticità alquanto complessa. E’ ovvio che i due governi – quello legittimo “laico” di Tobruk e l’altro “islamico” con sede a Tripoli – dovrebbero trovare delle modalità di collaborazione. Anche nell’ottica di riduzione dell’impatto dei 1.500 gruppi armati in Libia e per evitare che il governo “islamico” di Tripoli possa allearsi con i jihadisti dell’IS. Un simile evento non farebbe altro che aggravare una situazione già problematica di per sé. Attualmente in Marocco sono in corso delle trattative di pace fra le due fazioni principali (Tobruk e Tripoli) sotto l’egida dell’Onu mediante un inviato speciale nella persona del diplomatico spagnolo Bernardino Leon. Pourparler piuttosto difficili e complessi. Nel mentre l’Europa assiste al sostanziale fallimento dell’operazione “Triton” a dimostrazione di un’incapacità cronica dell’UE ad elaborare appropriate politiche di cittadinanza da cui poi discendono le politiche di sicurezza e di integrazione.

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