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Considerazioni di una quasi trentenne nell’anno della pandemia da Covid

Per una giovane che si affaccia al futuro, trascinandosi sogni, progetti, ambizioni, il 2020 è stato un freno mentale con cui fare i conti. Ci sarà il tempo per progettare una ripartenza.

di Alice Molino - giovedì 31 dicembre 2020 - 1878 letture

L’11 gennaio ammiravo la zona Quattro Canti a Palermo durante una di quelle gite d’inizio anno che di solito si vivono per prendere confidenza con il nuovo anno appena arrivato e progettare i mesi successivi. Gironzolavo come una trottola cogliendo dettagli del Barocco tra sguardi stranieri e sorrisi improvvisati. Fra raggi di luce che si mescolavano concentrando lo sguardo tra via Maqueda e il Cassaro. Palermo è biddizza ed in quarantotto ore era riuscita a creare un puzzle architettonico nei miei occhi e a saziare la mia voglia di vivere e di esplorare.

Contemporaneamente da Wuhan in Cina circolavano voci che già da tre mesi il CoronaVirusDisease19 aveva invaso le vite dei cittadini. Le notizie, poche e leggere, si accavallavano tra loro e la percezione di quanto stesse accadendo non mi distraeva più di tanto.

Tutto sembrava così lontano e surreale da farmi sentire immune. Il 21 febbraio, poco più di un mese da quella spensierata gita a Palermo, con lo stesso eccessivo distacco, guardavo il Tg. Bastarono pochi minuti. Immagini, parole, smentite, frasi rassicuranti, spesso troppi sorrisi iprocriti. Occhi appannati e sgranati da una notizia che da lì avrebbe sconvolto altre cento, mille, milioni di persone.

Come prima reazione, acquistai un nuovo dizionario tascabile, particolarmente insolito. Conteneva pochissime parole: DPCM, LOCKDOWN, MASCHERINA, AUTOCERTIFICAZIONE, COVID, TERAPIA INTENSIVA, OSPEDALI, MEDICI, INFERMIERI, OSS.

Parole che si ripetevano tra l’incoscienza e una parvenza di prudenza dalle bocche dei giornalisti televisivi, dai post improvvisati sui social, da qualche giornale sfogliato con apprensione per cercare di capire qualcosa in più. Giorno dopo giorno me ne impadronii assorbendole come una spugna.

Tra le dichiarazioni e gli ammonimenti di moralisti e virologi i mesi passarono. Fortunatamente mi vennero in aiuto Camilleri e Manzini, le loro parole riuscirono, nonostante una giustificata preoccupazione, ad intrigarmi di più.

Ma questa malattia da Covid-19 era entrata nelle nostre vite e c’è rimasta. Si annida silenziosamente e si appoggia come una farfalla. E tradisce come una mantide religiosa, non lasciandoti neanche l’illusione di un attimo di sublimità. Una malattia che non fa distinzioni ma rischia di estinguere il nostro passato.

Il virus ci ha segnato. Ha macchiato il corpo delle vittime con il marchio indelebile di un falso progresso. Si è impossessato del corpo e dell’animo di chi è riuscito a tornare a casa. Ha sconvolto chi ha rispettato la propria vita e quella degli altri, come un senso di colpa impossibile da estirpare. Ha segnato un’epoca e ri-diviso territori.

Ma senza questo virus non avrei mai utilizzato la parola "lockdown" e ne avrei sconosciuto la sua etimologia. Lockdown vuol dire confinamento, da confinare e dunque, confine. Confine che significa "il luogo dove si finisce insieme". Siamo ancora noi i protagonisti di un luogo che è ancora nostro.

Ricorderemo il 2020 sicuramente. Per le carezze assenti e le lacrime ingiustificate. Per le cene in videochiamata e le vacanze in giardino. Ma il 2020 ci ricorderà di amare e non tralasciare in particolare un confine: la famiglia.

Ci ricorderà che tendere una mano è più naturale di tenerla in tasca.
 Ci ricorderà che un sorriso fa male se sei costretta a nasconderlo.
 Ci ricorderà che siamo tutti uguali e fragili.
 Ci ricorderà la vulnerabilità di un genitore e la lentezza del trascorrere del tempo.
 Ci ricorderà che un abbraccio rimarrà sempre il gesto più nobile di un contatto umano.


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