Sei all'interno di >> :.: Primo Piano | Attualità e società |

Carcere: su 67 mila detenuti solo 10/15 mila i pericolosi

La Corte di Strasburgo condanna, ancora una volta, l’Italia per "Trattamento inumano e degradante". Si continua a suicidarsi ma un deputato Pdl propone di proibire l’uso dei fornelletti nelle celle

di Adriano Todaro - martedì 8 maggio 2012 - 2706 letture

Il più giovane aveva 21 anni; il più vecchio, 62. Fra loro ci sono 18 persone, tutti detenuti, tutti morti per suicidio o per motivi da accertare. Al 24 aprile 2012, sono quindi 20 le persone detenute che sono morte nelle nostre carceri. Quello di 21 anni, era un tunisino di cui non conosciamo neppure il nome. Ma un altro di 21 anni era italiano, Alessandro Gallelli. Si è ucciso il 18 febbraio scorso nel carcere di San Vittore, a Milano.

E’ oramai tragica contabilità. Nelle carceri ci si ammazza, si muore per motivi "da accertare", per malattia. Tutte notizie che non trovano spazio su quotidiani e riviste o alla Tv. Lo spazio lo si dedica alle interviste a personaggi come Renzo Bossi, ma se si uccide un ragazzo di 21 anni non importa a nessuno. D’altronde se era in galera significa che era bandito dalla società civile, che aveva fatto qualcosa di grave e, quindi...

Ma quei ragazzi che si uccidono così giovani ma anche quelli di 58 o 62 anni, si sono ammazzati perché mancava loro la speranza di potersi recuperare, di poter intravvedere un futuro migliore. Della loro vita, dei loro desideri, degli affetti noi non sappiamo nulla. Spesso, come visto, non conosciamo neppure il nome perché le autorità non lo forniscono. Sono numeri che vanno bene per le statistiche, numeri che i lettori dei giornali qualche volta leggono ma frettolosamente, quasi che dietro a quei numeri non ci fossero persone che come noi chiedono amore, che hanno desideri, pensieri, amicizie. Cosa ha lasciato, ad esempio, il detenuto di 21 anni, suicidatosi nel Cie di Bologna, in Tunisia? E quello italiano? Avevano una ragazza, un affetto? Prima di uccidersi, avranno pensato ai loro amici, ai loro cari, alle loro famiglie?

Non lo sapremo mai. Sappiamo solo che se erano in galera significava che avevano infranto la legge. Sono nemici dell’ordine costituito e giustamente vanno puniti. L’indifferenza ci sovrasta, presi come siamo da problemi da risolvere ogni giorno, problemi economici, del posto di lavoro, del futuro nebuloso che ci attende. E allora perché interessarsi dei detenuti?

Pochi giorni fa, l’ex Pm Gherardo Colombo intervistato da Radio Radicale ‒ intervista poi riproposta dall’Ansa ‒ aveva sottolineato che sino a qualche mese fa era perplesso e pensava "che sarei stato d’accordo con l’amnistia a patto che fosse condizionata ad una assunzione di responsabilità. Ma pensandoci e ripensandoci sono arrivato alla conclusione che l’amnistia deve essere amnistia, punto e basta". E così ha proseguito: "In carcere su oltre 67 mila persone, solo 10 o 15 mila persone sono effettivamente pericolose. Si potrebbe riportare il numero complessivo dei detenuti a quello della capienza regolamentare, e senza mettere a repentaglio la sicurezza generale della cittadinanza. Sono arrivato a questa conclusione perché vedo che non cambia nulla, si legge di suicidi che non fanno quasi mai notizia".

No, non fanno notizia. Ma questi fatti avvengono, anche se ci si fa l’abitudine e dopo l’abitudine arriva l’indifferenza. Ogni tanto qualche sprazzo a proposito di eventi particolarmente dolorosi o efferati, scritti con pathos per suscitare nei lettori sentimenti di pietà, così da vendere qualche copia in più.

Come abbiamo infinitamente scritto, il più delle volte ci si uccide per le condizioni di vita (o non vita) nelle carceri. Il sovraffollamento regna sovrano e gli appelli, le marce, le inchieste di pochi giornali non scalfiscono la posizione dei vari governi, dei politici che ad intermittenza propongono leggi per la riduzione del sovraffollamento, spesso irrealizzabili. Il governo promette (tutti i governi) nuove carceri ma non l’utilizzo di quelle già terminate e vuote. Nuovi carceri che si riempiranno prestissimo se non si lavora alla radice, se non si rivede la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulle droghe. Solo 10/15 mila persone, dice Colombo, sono effettivamente pericolose. E allora, perché nelle carceri ce ne stanno 67 mila?

A fine 2011, il 40% dei detenuti era in carcere per reati connessi alla legge sulla droga. A questi aggiungiamoci, poi, gli stranieri (più del 37%, 25 mila persone) che stanno in galera spesso non per reati gravi ma perché grazie a quella scellerata legge sull’immigrazione, manca loro un pezzo di carta con tanti timbri.

E così l’Italia, grazie a sovraffollamento e violazioni dei diritti dell’uomo, continua a subìre le condanne da parte della Corte di Strasburgo. I politici continuano a blaterare sulla certezza della pena, di un nuovo modello di esecuzione della pena in carcere ma non riescono neppure a far applicare le cosiddette "misure alternative" al carcere. Il nuovo modello non si applicherà mai sin tanto i 206 istituti carcerari continueranno ad essere fatiscenti, maleodoranti, sovraffollati. E sono così ben l’80% degli istituti italiani. D’altronde la Corte di Strasburgo continua ad infierire su di noi considerato che nelle carceri su 67 mila detenuti ben 27 mila non hanno condanna definitiva e ben 13.493 sono in attesa del giudizio di primo grado. Si calcola che il 43% dei detenuti potrebbero essere, potenzialmente innocente.

Sono ormai centinaia i ricorsi dei detenuti alla Corte di Strasburgo. Vertono tutti sulle condizioni di vita nelle carceri e qualificate dalla Corte come "trattamento inumano e degradante". E come potrebbe essere diversamente la definizione che fa la Corte delle carceri italiane? Quando in una cella di 16 metri quadri si sta in cinque è proprio difficile non considerarlo un "trattamento inumano e degradante". In quei 16 metri, le cinque persone (non numeri, persone!) debbono vivere, mangiare, fare i bisogni corporali, passare la giornata. Spesso, in alcune celle, si sta in piedi a turno perché non c’è spazio. In situazione come questa non si può fare nulla, solo vegetare. Altro che articolo 27 della Costituzione, altro che "rieducazione". In queste situazioni c’è solo abbruttimento e rabbia.

E da qui che poi nascono le rivolte e spesso a farne le spese sono gli agenti di polizia penitenziaria. Per risolvere la questione, i politici straparlano di carceri galleggianti e continuano a rinnovare costosissime convenzioni come quella con la Telecom sui cosiddetti "braccialetti" che allacciati alla caviglia, inviano, attraverso linea telefonica, la posizione del detenuto in ogni momento. Ogni "braccialetto" costa 700 mila euro, più di quello che si vende in gioielleria. In Italia è stato un fallimento ma la convenzione si continua a pagarla e pochissimi lo usano. In dieci anni sono stati spesi 110 milioni di euro, inutilmente. Mancano i soldi ma gli sprechi continuano al punto che quando il capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), Giovanni Tamburino, va in visita nel carcere di Chiavari, per fare bella figura, si dipingono in tutta fretta le mura dello stesso. Domanda polemicamente il sindacato degli agenti penitenziari Sappe: "Perché Tamburino non è andato a visitare il carcere di Marassi, con oltre 800 presenti a fronte di 400 posti letto, o quello di Savona a vedere le persone detenute in celle senza finestre?".

In questa grande confusione ci sono anche proposte che, a prima vista, possono sembrare di buon senso. Un deputato del Pdl, Rocco Girlanda, ha proposto di eliminare i fornelletti nelle celle perché, secondo lui, le bombolette spesso sono usate per sniffare o per suicidarsi. Non solo. Senza bombolette ci sarebbe più sicurezza, si eliminerebbe così la disparità tra i reclusi in quanto non tutti hanno i soldi per acquistare cibi dal sopravitto e istituendo dei refettori comuni si eliminerebbero le disparità di trattamento nel mangiare visto che tutti mangerebbero le medesime cose "convertendo spazi non utilizzati, come magazzini o palestre".

Ora bisogna dire che le intenzioni sono buone ma l’onorevole dimostra di non conoscere per nulla le carceri. I refettori sono già previsti dal Regolamento penitenziario. Non funzionano perché non c’è spazio a sufficienza e perché i magazzini e le palestre spesso sono usate come camerate. Ecco perché i pasti sono distribuiti con il carrello dal detenuto porta-vitto, cella per cella. I tre pasti giornalieri costano, complessivamente, 3 euro e 80 centesimi. Chiaro che con quei soldi non si possono fare miracoli e il cibo è spesso scadente e immangiabile. Ecco, allora, i fornelletti. Coloro che appena appena possono, economicamente, il pasto se lo cucinano loro. Ma questa attività serve anche, in un momento dove il carcere non offre lavoro né corsi, ad occupare il tempo, a sperimentare con metodi empirici e incredibili, piatti certamente più buoni. E il pasto lo si consuma assieme agli altri componenti della cella. Ognuno ci mette pietanze e fantasia. Ma il fornelletto è utile anche per riscaldare i cibi che durante i colloqui le famiglie portano ai detenuti. Un modo per risentire gli odori di casa propria, di creare una certa familiarità attraverso il cibo.

E serve per una cosa indispensabile in carcere: il caffè. Certo, qualche volta ci si ammazza con il gas. Nel 2010, però, ci sono stati 63 suicidi e ben 53 sono stati per impiccagione; 7 con il gas.

E’ sicuro l’onorevole del Partito della Libertà che senza le bombolette del gas ci sarebbero meno suicidi? O, forse, servirebbe altro?


- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -