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C’era una volta il reality show

Prima era solo un programma. Oggi è la televisione. All’inizio sembrava la semplice evoluzione di un genere televisivo, la Tv Verità, che aveva come protagonisti fatti e persone presi direttamente dal mondo reale

di laura stramacchia - giovedì 23 febbraio 2006 - 5090 letture

Prima era solo un programma. Oggi è la televisione. All’inizio sembrava la semplice evoluzione di un genere televisivo, la Tv Verità, che aveva come protagonisti fatti e persone presi direttamente dal mondo reale; l’unico filtro che si metteva tra il pubblico e la storia raccontata, era lo schermo televisivo. La Tv Verità era nata con uno scopo preciso e in una fase molto particolare della storia della nostra televisione.

Nel 1987 alla direzione di Raitre, la rete più giovane della Rai (nata nel 1975), viene nominato Angelo Guglielmi, un personaggio - ma soprattutto un’intellettuale - che in pochi anni rivoluzionerà completamente il concetto di “servizio pubblico”. In questo periodo nascono programmi che hanno fatto la storia di questa rete, e che ormai fanno parte della storia del nostro costume. Una fucina interminabile di idee di qualità, dall’intrattenimento (sempre di altissimo livello, se si pensa che la domenica di Raitre aveva come protagonista Andrea Barbato), alla tv di servizio (Chi l’ha visto, Telefono Giallo, Mi Manda Raitre, al secolo Mi Manda Lubrano), fino all’inclassificabile magma di Blob.

L’era Guglielmi fu la prova che si poteva fare una televisione di qualità e di alto livello, senza annoiare lo spettatore, trattando anche la realtà ma sempre in modo corretto e senza cadute di gusto. Un tv fatta da professionisti, persone che avevano ben presente il peso della responsabilità di andare in video, di comunicare davanti ad un pubblico di milioni di persone. Si doveva parlare in un certo modo, soprattutto in un italiano corretto (e infatti gli outsider Bongiorno e Funari diventarono famosi anche per il loro personale “uso” dell’italiano: il primo non azzeccava un congiuntivo, il secondo marcava pesantemente la propria cadenza romana), senza parole volgari né ambigue (per anni in Rai è esistito un dizionario di parole proibite, per esempio era tassativamente vietato usare l’espressione “i membri del parlamento”, considerata irrispettosa). Sicuramente alcune regole di questa “vecchia” tv sembrano ridicole e assurde, ma erano un chiaro tentativo di evitare un’incontrollabile deriva lessicale e contenutistica; a quei tempi mostrare o meno una lacrima era soprattutto una questione di etica e di stile, più che di spettacolo.

Se confrontiamo la Tv Verità di questi anni e i reality show di oggi ci accorgiamo di avere di fronte due universi completamente diversi, probabilmente perché allora si aveva ben presente cos’era lo spettacolo, e di conseguenza il concetto di realtà era ben definito e preciso. Ma come si è riusciti a passare in così breve tempo dalla tv delle parole proibite, alla totale anarchia del nuovo millennio?

Inizialmente era la tv ad essere a servizio del mondo reale; anno dopo anno la realtà è sempre più protagonista soprattutto nelle reti Mediaset, che iniziano a sfruttarla per l’intrattenimento pomeridiano e serale. Vicende accadute veramente raccontate dagli stessi protagonisti: Agenzia Matrimoniale, Amici, Stranamore, tutti programmi in cui la gente comune può trovarsi di fronte alla telecamere e comunicare con il pubblico a casa. Il pubblico inizia ad abituarsi alle gaffes, all’emozione e agli svarioni di questi nuovi personaggi che popolano l’etere, che compaiono sullo schermo come meteore per pochi minuti, per ritornare subito dopo nell’anonimato delle loro vite vere. In questa fase c’è ancora una sorta di equilibrio tra chi và in tv e chi ci lavora: non basta essere di fronte alla telecamera per sapere quello che bisogna fare, ci vuole esperienza e rispetto del pubblico, un incompetente può rovinare un lavoro di preparazione durato mesi. Il mondo reale è ancora un universo separato dalla televisione, che è sempre e comunque spettacolo, cioè finzione. Le uniche incursioni dirette nella realtà sono concesse ai telegiornali. Tutto il resto rimane comunque finto e calcolato.

Ma verso la seconda metà degli anni ’90 la situazione comincia a farsi critica; la realtà filtrata dallo spettacolo rischia di annoiare molto più velocemente di quanto si potesse prevedere. Si è ormai stabilizzato un sistema si compra-vendita di formati televisivi (per citarne alcuni: Stranamore, Carramba che sorpresa, Colpo di fulmine, Brutto anatroccolo) che ha progressivamente ma inesorabilmente portato tutte le televisioni a trasmettere programmi identici, con il risultato che da paese a paese è possibile assistere a palinsesti sostanzialmente uguali.

Finché le società producono in continuazione programmi nuovi e le televisioni li comprano, il sistema funziona, ma quando chi crea i programmi non ha più idee nuove, la crisi si trasmette inevitabilmente e rapidamente a tutti i paesi acquirenti. Quando la situazione di stallo creativo inizia a non essere più ignorabile, e gli autori cominciano a non sapere più cosa inventarsi di nuovo, le società di produzione (Endemol in testa), cominciano a preoccuparsi. La verità è che chi dovrebbe stare al vertice di questa piramide non sa più cosa pensa e cosa vuole il pubblico, perché il pubblico non è tutto uguale; inoltre è praticamente scomparsa la figura dell’autore televisivo vecchia maniera.

Gli autori non scrivono più i programmi, ma si limitano a “tradurre” format preconfezionati e di conseguenza non si fa più ricerca sulla psicologia del pubblico, e le uniche indagini che vengono commissionate riguardano ricerche di mercato per decidere il prezzo delle varie fasce pubblicitarie giornaliere; ormai il pubblico è quello che guarda lo spot, non il programma. Come risolvere questa crisi prima che si diffonda in tutto il mondo? Se la gente avesse iniziato ad annoiarsi, avrebbe smesso di guardare la tv, e questo significava niente pubblicità, e quindi niente soldi.

John de Mol (proprietario della Endemol con Joop van den Ende) insieme a Paul Römer (capo dei produttori) si scervellano per mesi cercando un’idea nuova finché (siamo nel 1997) non gli capita per le mani la notizia che la NASA stava preparando un esperimento molto particolare, in visione di una possibile futura colonizzazione spaziale: Biosfera 2, un progetto di studio per lo sviluppo di un ambiente autonomo dal territorio in cui si trova. Ecco l’idea: niente più spettacolo, solo verità, solo persone genuine, prese dalla strada. Römer incomincia commissionando delle interviste ad ufficiali della marina olandese che avevano vissuto nei sottomarini, per verificare se l’isolamento estremo produceva qualche interessante modello di comportamento umano. Il risultato fu Goden Cage: un gruppo di persone chiuse per un anno in una favolosa casa signorile, ripreso giorno e notte. Solo per le riprese iniziali e l’allestimento della casa, il preventivo raggiunge i 22 milioni di dollari. Troppo caro.

Ma l’idea era buona, così dopo un’attenta razionalizzazione dei costi e dei tempi di ripresa, ecco che sugli schermi arriva Big Brother, la realtà al quadrato in onda 24 ore su 24, più vero di così non si può. Inizialmente è un successo. In Olanda prima, e in seguito, nel resto dell’Europa (solo i francesi hanno manifestato in modo tanto violento da stroncare Loft Story - il nome francese del format - alla seconda edizione); inoltre è semplicissimo smuovere la noia in un ambiente isolato in cui vengono rinchiuse persone diverse, obbligate a un contatto continuativo, qualunque cosa nel vuoto di informazioni in cui sono immersi i concorrenti genera una reazione.

Ogni anno però, gli autori si devono inventare qualcosa di nuovo, perché altrimenti il pubblico si annoia. E se nessuno si bacia? E se nessuno litiga? Ogni anno nuovi elementi, sempre più spettacolari, entrano nel gioco nel caso scelta del cast non permetta un livello di azione abbastanza avvincente. Anche se il pubblico si rende conto che ciò che vede non ha più niente a che fare con la realtà, continua a sintonizzarsi sui canali che propongono questa offerta televisiva, in attesa del colpo di scena. Ma come è già successo, la crisi è dietro l’angolo e già cominciano a vedersi i primi sintomi. Il pubblico segue ancora i reality (la puntata serale del Grande Fratello 6 fa una media di 6 milioni di telespettatori, ma l’ascolto è in continua discesa: si è passati in poco più di un mese, dai 7 milioni e mezzo della prima puntata, ai risicati 6 della quinta, 1 milione e mezzo di contatti in meno), ma ormai è diventato un programma come un altro, da tenere acceso mentre si fanno altre cose, la gente guarda ma non è soddisfatta.

Gli autori, hanno perso di vista i due elementi fondamentali di questo genere: il reality show è soprattutto una soap-opera in diretta, e nelle soap-opera i protagonisti o si amano o si odiano, non interessa a nessuno se sono ricchi o poveri, belli o brutti, basta che si bacino o che si picchino. La grata che divide le due case funziona (ed è brutto da dire, ma è così) se chi sta da un parte riempie d’insulti chi si trova dall’altra, e che nessuno si permetta di dire, come è già successo, che quella grata è la precisa schematizzazione del mondo reale in cui chi è povero “può solo guardare” ciò che possiede il ricco. E se al GF6 non scatta un bacio o una rissa, gli autori dovranno inventarsi qualcosa di nuovo, e al più presto.

(data pubblicazione sul sito 23 febbraio 2006)


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