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Bocciata

La scuola italiana ha di fatto registrato una sonora bocciatura, nonostante i buoni propositi e le promesse dei nostri politici.

di Piero Buscemi - mercoledì 19 dicembre 2018 - 5327 letture

Non moltissimo tempo fa, fu fatto un esperimento tra gli studenti delle scuole medie italiane per verificare il livello di conoscenze posseduto. Ne uscirono dati sconfortanti che sfociarono in aneddoti e leggende metropolitane, non così lontane dalla realtà. Si andò dal ragazzino siciliano che, alla domanda quale fosse la capitale d’Italia, rispose campanilisticamente Palermo, a quello romano che, alla domanda di chi fosse il presidente della repubblica, rispose misticamente il papa. Tante altre se ne potrebbero raccontare spostandosi in lungo e in largo nel territorio nazionale.

Anche alcune inchieste semiserie, condotte da programmi televisivi di satira, hanno più volte messo a nudo il livello di conoscenze elementari anche dei nostri politici. Al di là dell’aspetto ironico della questione che, involontariamente, riduce il tutto a un mero fatto folcloristico della nostra Italia, il confronto della nostra scuola con il resto del mondo è diventato uno scontro impari, dal quale ne usciamo alquanto emaciati e con scarse possibilità di rilancio per il futuro.

Uno degli elementi più evidenti, riscontrabile tra i paesi rientranti nei livelli più alti di sviluppo economico, è quello che mette in risalto lo scarso investimento di risorse economiche e di mezzi per un accrescimento del livello di istruzione degli italiani, rispetto alle altre nazioni. Un recente studio dell’Ocse (Organizzazione internazionale per la collaborazione e sviluppo economico), ha fatto emergere come in Italia, solo il 4% della popolazione compresa tra i 25 e i 64 anni, possa vantare un titolo di studio di livello base del nuovo ordinamento universitario, per intenderci la laurea triennale. Un dato irrisorio se lo si confronta con il 17% dei Paesi Ocse. Ancora più drammatico il dato generale che mette a raffronto il totale dei laureati: 18,7% contro il 33%.

Basterebbero questi dati per darci un’idea di come il nostro Paese parta da un livello di competitività inferiore rispetto a quello degli altri, un dato allarmante se si considera che stiamo parlando di universitari e quindi, di giovani. Non sono lontani i tempi in cui, già mettendo in relazione le abitudini di vita dei giovani che si affacciavano al mondo del lavoro qualche decennio fa, vedeva un’alta percentuale di ragazzi delle città più industrializzate ed economicamente più sviluppate, vedi Milano o Torino, che dopo la scuola dell’obbligo, si indirizzavano verso una scelta lavorativa del loro futuro. Di contro, in molte realtà del meridione, moltissimi ragazzi continuavano gli studi fino all’università, non potendo contare su un lavoro immediato nei loro luoghi di origine.

La crisi del lavoro che ha intaccato tutti gli strati sociali e le varie latitudini d’Italia, ha negli ultimi anni messi tutti nella stessa linea di partenza, con l’aggravante che, oggi, è diventato difficile poter fare una scelta tra il proseguimento degli studi e il lavoro, essendo quest’ultimo diventato più difficile da trovare e sempre più precario. Questa nuova situazione è quella che ha determinato quella drammaticità, registrata trai le fasce di età sotto i 30 anni, che vede un terzo dei giovani che con rassegnazione ha anche rinunciato a cercare un lavoro o ad arricchire le proprie conoscenze tramite qualche corso di formazione.

Il problema sta sicuramente alla fonte. Se le statistiche ci informano che l’Italia spenda il 28% in meno degli altri Paesi in investimenti per l’istruzione, stupirsi di certe conseguenze appare fuorviante. I costi sostenuti dalle famiglie, tra tasse universitarie, soggiorni fuori sede e le scontate varie ed eventuali, non incoraggiano ad innalzare il livello di istruzione nel nostro Paese. Certo, auspicare in una situazione socialmente più evoluta, come in alcuni paesi del nord Europa, dove non sono previste le tasse universitarie e gran parte degli studenti riceve dallo stato anche un sussidio per sostenere le spese per lo studio, sarebbe davvero come snaturare il nostro modo di essere e di gestire il futuro dei nostri giovani.

Sperare, almeno in questo, che i nostri amministratori prendano coscienza di come, in un percorso irreversibile di condivisione del nostro destino con il resto d’Europa, se non del mondo, non si possa partire con l’handicap di istruzione, è una condizione primaria per rideterminare un minimo di rispetto nei confronti dell’Italia, al di fuori dei nostri confini, e ultimamente relegato ad esclusivi momenti di goliardia. La fuga di cervelli all’estero, che ogni tanto rispolveriamo quando abbiamo esaurito gli argomenti di litigio nei talkshow nazionali, ma anche quel numero impressionante di giovani che emigrano negli altri Paesi in cerca di quello che in Italia è diventata una chimera, le condizioni minime di sopravvivenza, forse passa anche da quante risorse siamo disposti ad investire nelle nostre scuole.


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