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Babylon (1980) e Dread Beat an’ Blood (1979). Franco Rosso e il reggae nell’Inghilterra degli anni 70: violenza, razzismo e dub music.

di Dario Adamo - mercoledì 15 ottobre 2008 - 5278 letture

Parlare di reggae spesso significa evocare immagini di rara serenità, colorate fotografie di festival che raccolgono migliaia di persone, nel nome di pace, amore e uguaglianza. Viene in mente Bob Marley and The Wailers, le incantevoli spiagge della Jamaica, il sorriso smagliante di tanti rastaman dall’aria rilassata e accondiscendente, movimenti ritmati e lenti e grosse nubi di verde smog naturale. Peccato che le cose non stanno per niente così, sia se ci si volta indietro, al passato, sia quando guardiamo al presente.

Il presente è quello dell’ormai diffusa polemica sull’omofobia, la caccia ai “cicciman” (brutale forma di nominare gli omosessuali), la corsa a scalare le vette delle classifiche pompando canzoni che suonano troppo gangsta e brooklyniane. Il passato è (anche) quello della forte ondata di immigrazione che portò migliaia di uomini e donne di colore provenienti dalle isole caraibiche (tra tutte la Jamaica) all’Inghilterra pre-tatcheriana.

E’ di questo passato che Franco Rosso si fa portavoce e cronista in questo Babylon. Sono gli anni settanta e siamo a Brixton, quartiere di una Londra particolarmente ostica nei confronti dei molti immigrati che camminano sui loro stessi marciapiedi, quei West Indians di colore scuro, seconda generazione di jamaicani cresciuti in Europa. L’unica cosa che permette a quei giovani figli di immigrati di farsi sordi ai i continui insulti razzisti sono i decibel che escono dalle casse dei sound system che con tanta energia trasportano da un garage all’altro, luoghi nei quali si svolgono le session di reggae music.

Il pretesto da cui nasce la storia di questo film è un attesissimo sound clash (uno “scontro” fra dj) tra l‘Ital Lion Sound, di cui Blue (interpretato dal cantante degli Aswad, ex Double Decker, Brinsley Forde) è il rappresentante e Jah Shaka (che interpreta se stesso). Per Blue la vita non è per niente facile, tra un licenziamento a lavoro, le continue incomprensioni a casa e una ragazza che lo lascerà solo. Fortunatamente ha gli amici con cui condividere l’amore per la musica reggae e con i quali sta preparando la gara musicale contro il famoso Jah Shaka. Arriva il giorno del duello all’ultima “tune”, ma in quelle zona ormai si sa…non si può proprio stare tranquilli.

Una regia da un lato molto fredda e realistica, attenta soprattutto a descrivere con piglio veristico luoghi, persone e ambienti di quel periodo caldo, segnato da bieco razzismo civico e violenza xenofoba gratuita e dall’altro una scrupolosa attenzione rivolta alla storia individuale di Blue, vittima degli eventi e di un sistema che sicuramente non lo aiuta a rialzarsi quando si trova a terra.

Un elemento fondamentale è senza dubbio la colonna sonora che contribuisce allo sviluppo della storia (che è anche un racconto di musica e radici) e che in particolari circostanze diventa prominente rispetto a tutto il resto, con quelle distorsioni dub spaccatimpani (la rimasterizzazione digitale fa la sua parte) e avanguardiste. Un ritmo narrativo segnato dalla musica, che spazia dal rocksteady che riesce a far ballare “i vecchii” durante le riuonioni di famiglia agli evoluzionismi dub di Shaka che intrattengono i giovani”negri” nei ghetto-garage. Una rivoluzione generazionale che fa della musica reggae il suo scudo e la sua bandiera.

Dread Beat an’ Blood.

Si tratta di un documentario su una figura essenziale della contestazione antirazzista dei primi anni settanta, il poeta e cantante Linton Kwesi Johnson. Arrivato a Londra nel 1963, cerca di integrarsi subito in quella società tanto avversa nei confronti degli immigrati di colore, frequentando le scuole inglesi ed iscrivendosi alla facoltà di Sociologia dell’università di Londra. Si laurea, ma la spendibilità del suo titolo sembra essere limitata e intraprende attività lavorative diverse da quelle che il suo profilo professionale auspicava. Lavora in fabbrica e in seguito finalmente in una biblioteca, luogo a lui più consono e dove si sente più a suo agio. Ciò che invece ha sempre fatto e di cui non si è mai stancato è scrivere poesie.

Quando scrive, dice Johnson, le parole escono accompagnate già da un ritmo:l’inchiostro scorre e la musica avanza. Da qui la necessità oltre che di leggere quelle poesie, anche di farle accompagnare da una melodia (dub, chiaramente) e cantarle. E’ così che nascono quelli che poi saranno riconosciuti come veri e propri successi: a parte l’omonimo Dread Beat an Blood, Man free e Five Nights of Bleeding sono state (e continuano a essere) non solo poesie toccanti e compromesse, ma anche hits della dub-reggae music. Testi che recitava o cantava e che hanno contribuito fattivamente ad una presa di coscienza collettiva per gli immigrati “caraibici”residenti in Inghilterra, che ne hanno raccontato episodi (come l’arresto dell’innocente George Lindo, accusato di una rapina mai commessa e condannato a due anni di reclusione) e che gli conferiscono un eccezionale primato come autore di “Dub Poetry”.


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